Stamani mi sono svegliato con un'altra storia minima "in canna", una cronaca ambientata a San Giovanni, fine anni '70 dello scorso secolo e millennio.
La frazione portoferraiese dalla quale si gode (consentitemi un po' di campanilismo) uno dei più affascinanti panorami del Mediterraneo, era allora popolata da un bel nucleo di persone.
C'era perfino una minuscola rivendita di Sali&Tabacchi accanto alla quale resisteva aperta una classica "bettola" ferajese (un tempo erano due, ma quella lato est, di Cirillo, si era già trasformata prima in "bar" e successivamente in ristorante).
Nel locale conosciuto come "Da Zefiro" si mesceva vino, si faceva merenda con le povere specialità della casa; "zeri fritti e ammarinati", ova sode, paiate di vtello, baccelli - s'era stagione - che venivano dai vicini campi.
Era ancora in uso all'epoca che, dal centro ferajese e dalle proletarie periferie, gruppetti di sfaccendati anziani (quasi tutti di sesso maschile, le donne erano delle mosche bianche) nel pomeriggio, con la buona stagione, sciamassero verso le bettole periferiche decentrate (il territorio comunale contava, in barba alla temperanza, nel momento di massimo splendore, più di venti simili esercizi): i Tre Archi di Carpani, il Botteghino di Silvio al bivio per San Martino, dal Papa all'Acquabona ... e altri tra i quali, appunto Zefiro.
Io a San Giovanni all'epoca ci abitavo, inquilino degli eredi di Domingo Giulianetti, nella splendida vecchia casa che domina la piazzetta, dotata di sottostante loggiato e di una grande terrazza, dalla quale si vedeva la Portoferraio sdraiata sul mare e si controllava chi accedeva alla località, sbarcando dal pullman che in piazzetta faceva capolinea.
Quel pomeriggio dal mezzo scesero, non senza difficolta in tre: Vittorio Del Bono, che procedeva fortemente impedito, arrancando in una balbuzie che dalla lingua la natura matrigna gli aveva esteso agli arti, il suo amico del cuore che, vittima di un incidente con gli esplosivi nel dopoguerra, aveva le gambe che terminavano con i ginocchi, e con quelli, protetti di pezzi di copertoni, aveva imparato faticosamente a trascinarsi, ed un altro, un ometto alto forse un metro e mezzo, che aveva una delle due gambe con articolazioni bloccate e si muoveva come un compasso, puntando a terra un bastone.
I tre si erano fermati proprio sotto casa mia, rifiatando in attesa di compiere gli ultimi trenta lunghissimi metri che li separavano da Zefiro.
Vittorio alzò gli occhi e, riconoscendomi appollaiato sulla terrazza mi apostrofò per soprannome familiare:
"Ta-ardò - disse - nooooi siamo pro-pronti peee la corsa. Te daaacci il via!".
In questi quaranta anni mi è tornata in mente centinaia di volte quella fulminante battuta, e la genuina risata che coinvolse me e i suoi compari.
In moltissime occasioni ho pensato alla capacità che avevano quelle persone di prendersi in giro, anche con ferocia, di sdrammatizzare una situazione di sofferenza, di farne oggetto addirittura di scherzo e allegria in luogo che di piagnucolii, ho pensato a quanto fossero "alti" quei tre che la vita aveva crudelmente scorciato.
Tutte le volte che mi trovo davanti un presunto "maggiorente" ferajese (e non), ad una mezza-sega piena di sicumera, supponenza, e arroganza, e soprattutto priva di qualsiasi capacità di "guardarsi da fuori", di trovare il ridicolo nei suoi più solenni proclami, nella sua zoppia culturale e umana, mi tornano in mente - con infinito affetto - i tre amici di San Giovanni.