Quando ero piccola nel bel mezzo dell’estate elbana i miei mi deportavano dai parenti a Livorno, cosicché mutavo i miei scenari marittimi dalle Ghiaie a Tirrenia, una sorta di Versilia minore, cementificata e presuntuosa, ma senza vip.
Mi accadevano cose strane, senza che allora riuscissi a darmi spiegazioni accettabili. In spiaggia si andava con almeno due costumi. Uno per fare il bagno, uno per prendere il sole e possibilmente un terzo da cambiare per la passerella del pomeriggio, preferibilmente con bigiotteria coordinata. Il bagno si faceva sotto le docce. I più coraggiosi osavano andare fino con i piedi in mare, ma il resto del corpo si offriva all’acqua dissalata delle docce all’aperto. La barbara usanza di prendere il sole sull’asciugamano era sostituita da quella di stare ripiegati su una sdraio ad abbronzarsi solo sul davanti.
Andare al mare in realtà voleva dire andare sulla spiaggia.
Per noi bimbi di scoglio c’era un’altra estate. Quella degli asciugamani abbandonati sui sassi, e delle rincorse in mare, dei tuffi infiniti dagli scogli taglienti o scivolosi “d’erbino”, dell’acqua salata dentro gli orecchi o che ti colava dal naso fino alla sera. Di quei tempi mi sono rimaste tre cose: l’odore tenace del salmastro, i capelli intricati e la pelle ruvida contro l’asciugamano seccato dal sole. Credo che la mia elbanità stia tutta qui, salata e scorbutica.
Crescendo sono rimaste queste differenze: io che consideravo le cose dal mare, loro dalla spiaggia. Con una novità, allora ero convinta di avere ragione io, adesso sorrido e penso che ognuno abbia il diritto di vedere le cose come meglio crede. Perlomeno ci provo, mi impegno con assiduità. Non sempre però questi tentativi di “raffigurazione simpatetica dell’altro” vengono corrisposti. Non basta essere cresciuta, a volte qualcuno mi fa notare di essere ancora bagnata e salata, con un unico costume addosso per tutta la stagione. A volte incasso, altre mi incazzo. Passata l’ira, mi sforzo di riflettere e di sorriderci su.
Credo che la mia isola mi abbia cresciuto dosando rabbia e amore, che i confini angusti e gli orizzonti negati abbiano scatenato una dolorosa voglia di infinito, così difficile da tradurre in quotidianità. La gioia di stare qui, è smorzata dall’ansia di non essere altrove. Il tuffo è la metafora più appropriata. Da una parte uno scoglio scivoloso, dall’altra il mare sconfinato: in mezzo l’acrobazia di un corpo.
Mi sento portatrice convalescente della “prospettiva del sale”, il mio punto di vista elbano, uno tra i milioni di altri punti di vista possibili. Una sELBAggia per altri “non simpateticamente sintonizzati” . Va bene, vedremo via via di scrivere qualcosa su questo giornale che includa la prospettiva del sale e quella di chi ci considera isolani selvaggi, perfino scampati, noi soli e non si sa come, alle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione.