“Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. <…> Le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c’era di reale, o di vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta”. Così Alessandro Manzoni rifletteva -ne “I promessi sposi”, a proposito della peste di Milano del 1630- riguardo ai modi con cui anche i più volenterosi e ben disposti si trovavano a dar giudizi sulle cause e sugli effetti dei mali del tempo, sulle cure da adottare, sui provvedimenti da prendere nei confronti di chi –pur senza alcun fondamento scientifico- ne veniva additato come più o meno direttamente responsabile.
M’è venuta a mente donna Prassede ascoltando le sicure dichiarazioni di Matteo Salvini a proposito della bimba morta di malaria nel Settentrione, evento tragico e dolorosissimo riguardo al quale il buon senso o in ogni caso il comune senso del pudore avrebbe dovuto suggerire riservatezza, delicatezza, assennatezza. Invece a Salvini è tutto chiaro: cause, effetti, terapie (sociali, politiche, perfino mediche): la causa sono gli immigrati, potenziali e attuali portatori di contagi; l’effetto è la contaminazione della bimba entrata in contatto con loro (circostanza peraltro da appurare); la terapia è l’eliminazione della causa tramite respingimento e isolamento degli immigrati. Appunto, tutto chiaro.
Tralascio di esprimere valutazioni particolari su diagnosi e prognosi del Segretario della Lega, valutazioni ampiamente diffuse sui ‘media’ nel vano tentativo di spostare il dibattito dall’emozione al ragionamento. Mi incuriosiva, invece, la serie delle analogie fra la situazione attuale e quella descritta dal Manzoni, ovviamente con tutte le distinzioni che i diversi contesti impongono.
A cominciare da quella che possiamo considerare la premessa della narrazione manzoniana della peste, ben applicabile al problema attuale delle grandi migrazioni dal Sud del mondo: “sicché l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione”. Oggi non si tratta di peste; ma anche di quella che per analogia possiamo definire un’“epidemia” -cioè la trasmigrazione di quantità ingenti di uomini, donne, bambini provenienti da terre lontane- pochi sentono la necessità di “intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione”, privilegiando più i giudizi che i fatti. Così i numeri raggiungono cifre elevatissime, gli aneddoti sulle condizioni della vita degli “ospiti” diventano leggende, i necessari ragionamenti su un fenomeno importante e delicato –ancorché non nuovo, per essersi verificato a ondate ripetute nel corso dei millenni, e sempre portando sconvolgimenti definitivi nelle diverse società che ne sono state coinvolte- lasciano il posto alla considerazione dell’insicurezza del proprio stato, alla destabilizzazione delle proprie certezze, alla paura.
In questo modo gli “immigrati”, categoria genericissima ma assunta ormai con una forza identificativa proporzionale alla paura che genera, sono divenuti oggi i nuovi “untori”, maligna causa di tutti i mali che ci toccano e il cui elenco si può trovare condensato nel codice penale. La certificazione statistica non scalfisce la certezza determinata dalla paura: i ladri, gli stupratori, gli assassini, i violenti sono gli “immigrati”, anche se è ben noto come fra di essi solo una minoranza si macchia di tali delitti analogamente alla minoranza di “noi altri” che fa altrettanto, e come dunque nei confronti dei singoli delinquenti -immigrati e nostrani- deve intervenire l’autorità di giustizia con identica energia.
E infatti il Manzoni avvertiva: “perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle. <…> Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire”.
Così la piccola si ammala di malaria per l’“unzione” dei due ragazzini ricoverati nello stesso ospedale di Trento. Non sappiamo se è vero e neppure se è possibile, viste le circostanze necessarie per il contagio di malaria. Ma subito si leva lo spettro delle malattie debellate da tempo da noi, e che ora ricompaiono al seguito degli “untori” immigrati –proprio come dicevano negli USA al tempo dell’immigrazione italiana, agli inizi del secolo scorso, usando quasi le stesse parole-. La paura diventa psicosi, la psicosi dilata la paura. “Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia” commenta ancora il Manzoni. Nel nostro tempo i “trovati del volgo” (le “parole d’ordine” che si impongono) evocano lo spettro della paura di ritrovarsi poveri, senza patria e senza futuro come gli sventurati che lasciano la terra abitata dalla loro gente per secoli per “rifugiarsi” presso un altrove indefinito e ostile; e offrono alla “gente istruita” (?) una facile occasione per ergersi a difensori della patria sventurata, e dei compatrioti in pericolo. Nei “trovati della gente istruita” (?) il “volgo” trova alimento alla propria angoscia e al disperato tentativo di lenirla esercitando una violenza per ora verbale, ma poi chi sa?
La peste, a Milano, arrivò al seguito dei Lanzichenecchi di Wallenstein durante la guerra dei Trent’anni. La guerra mai dichiarata dall’Occidente europeo ai popoli dell’Africa e del Medio Oriente dura da secoli, e la sua ultima fase ha ormai cent’anni di storia; al suo seguito giungono gli sconfitti di sempre, per ora a chiedere soccorso, ma poi chi sa’? Trovare soluzioni non dirompenti sarebbe allora cosa degna, giusta, equa e salutare.
Luigi Totaro