Ho appreso solo ieri la ferale notizia … il ristorante del Padovano ha chiuso definitivamente i battenti, ed è un evento che vivo in queste ore luttuosamente; per anni ed anni quel locale dal nome veneto, che somministrava la cucina più ferajese possibile, è stato il mio primo naturale approdo gastronomico extracasalingo, una trattoria che praticava prezzi molto (forse perfino troppo) onesti, nella quale si poteva andare anche “alla ricerca del sapore perduto” del “conigliolo” alla cacciatora, della minestra di pasta e fagioli fatta come Cristo comanda col pezzettino di cotenna anti-vegana, degli zeretti fritti capaci di scaldare il più rigido degli inverni, del baccalà in umido con le bietole poeticamente struggevole al palato.
Né mai più mi sarà dato di lasciare un angolino di stomaco libero, per alloggiare (proprio io che per i dolci non stravedo) una fetta di torta di noci e cioccolato o altra consimile delizia confezionata dal genio pasticcero di Donatella.
Lacrimando andrò a consolarmi da Franco a San Giovanni, da Davide alle Ghiaie o da un altro degli ormai rari interpreti del mangiare d’un tempo, e incicciando con voluttà un totano “nostrano” alla brace, o masticando aulente tonnina, vagheggerò della costituzione di un fronte di resistenza umana contro creperie, piadimpaninerie, spaghetterie, cineserie, mega-polpetterie, hamburgherie e troiaierie varie, dispensatrici di (si fa per dire) cibi che si rivelano intrugli tutti dell’identico misto sapore di copertone d’auto e ghianda biascicata.
E se mi proporranno nipponicamente del “sushi” oh! allora come Federico Garcia Lorca davanti ad un Ignazio trapassato (dalle corna del toro, così impara a rompegli le palle) dirò: “No .. non voglio vederlo!” e se qualcuno insisterà giungerò insino a dire: “A me me lo sushi!”