L’anno scorso, quando il presidente Mattarella ha inaugurato l’anno scolastico proprio da noi, a Portoferraio, il meteo bizzarro ha fatto sì che all’ultimo tuffo la cerimonia si svolgesse non all’aperto, nel piazzale del liceo, dove era originariamente previsto con già tutto organizzato, ma al chiuso, al riparo.
Il posto in questione è l’adiacente palazzetto dello sport, intitolato a Monica Cecchini, il cui nome in quei giorni, data la portata dell’avvenimento, può darsi sia rimbalzato anche oltre canale.
Ci ho pensato a questa cosa, e mi è venuto in mente che una volta, quel nome, nei palazzetti ci rimbalzava per altri motivi, sportivi, di pallavolo.
Una volta quel nome suscitava rispetto e, in più di un caso, incuteva anche timore nell’avversario di turno.
Del resto, col soprannome che le compagne le avevano affibbiato (tutto un programma: “mano di pietra”) non avrebbe potuto essere altrimenti.
Monica era una promessa dell’Elba Volley e, sia pur giovanissima, grazie al suo talento si era già ritagliata uno spazio in prima squadra.
Tra le altre cose, fu una delle prime in assoluto a battere al salto: aveva realizzato che la sua potenza poteva essere un’arma in più per la squadra fin da subito.
Ma la battuta al salto è un fondamentale pericoloso, margine d’errore non ce n’è.
C’era dunque da aggiustare il tiro, da calibrare la mira, così in allenamento si metteva lì e si esercitava.
Tradotto: si arrampicava in alto nell'aria, volava e sparava.
Bum! Bum! Bum!….il sound di quelle schiacciate era inconfondibile.
Non l’ha mai perfezionato fino in fondo quel fondamentale Monica, non ne ha avuto il tempo, il fato se l’è portata via a soli 17 anni, ma tant’è, il palazzetto dello sport le è stato intitolato affinché il suo ricordo restasse nella memoria.
Già, nella memoria.
Sono passati 30 anni esatti dalla sua scomparsa, avvenuta in un incidente stradale, ma quel 2 novembreme lo ricordo come se fosse ieri. 30 anni dal suo ultimo, ma quella volta tragico, volo.
Me lo ricordo anche per un motivo: quello sgomento che si provava ovunque, a scuola, in paese, al campo sportivo (giocavo a calcio nelle giovanili dell’Audace), per molti di noi non è stata soltanto una mazzata nello stomaco.
E’ stata la prima.
E’ stata la prima, vera tragedia a cui molti, di quella generazione all’epoca non ancora maggiorenne, hanno dovuto far fronte.
E’ un po’ come se la vita ci avesse spalancato la porta, spiattellandoci nel muso: “Prego signori, accomodatevi. Abbandonate pure la spensieratezza di gioventù e benvenuti nel mondo dei grandi”.
Qualcuno era pronto, la maggior parte no.
Me lo ricordo come se fosse ieri, io che a Monica neppure la conoscevo bene, ma solo di vista.
Ricordo anche che quasi subito dopo l’incidente, più sull’onda emotiva che per buon senso, nella zona dove avvenne l’impatto fatale furono installati parecchi dissuasori di velocità, in gomma, tra le Ghiaie e Sotto Bomba.
Ecco, col buon senso - e di tempo non ne è mancato davvero - quei dissuasori avrebbero potuto installarli come si deve, senza fargli fare la fine che invece hanno fatto: spariti tutti.
Fatta eccezione per un paio di eroici (e sdentati) superstiti su e giù per la Padulella, sono spariti tutti.
Come se il morto, causato - attenzione - dalla folle velocità di quell’altro motorino, su quella strada stretta e sconnessa non ci fosse scappato mai.
Chi conosceva bene Monica l’ha ricordata, magnificamente, qualche anno fa in occasione di un poco edificante episodio di cronaca.
http://www.elbareport.it/cronaca/item/12716-a-chi-ha-imbrattato-quella-targa-racconto-chi-era-monica
Per la sua famiglia, oltre al danno, in un certo senso c’è anche la beffa.
Non mi riferisco allo sfregio della targa, e nemmeno alla farsa dei dissuasori, per carità, ma all’incidente stesso, che è avvenuto proprio in quel punto esatto, appena fuori di casa, all’imbocco della curva S.
Ogni volta che i familiari escono o rientrano infatti, è un film già visto centinaia, migliaia di volte.
Al solo pensiero di che cosa possano provare, vengono i brividi.
Pur essendo un tasto piuttosto delicato, su un punto vale la pena soffermarsi.
Il ricordo resta nella memoria, è vero evale per tutti, anche per Renato e Loredana, che sono i genitori.
Ed è una differenza enorme, abissale, perché sopravvivere ai figli è il contro-natura per eccellenza.
No, non erano pronti neanche loro, come può un genitore esserlo?
Dovreste però vederli Renato e Loredana, dovreste vederli da Monica, dov’è seppellita, insieme alla cugina - quella è un’altra storia - in una sobria tomba su cui vi è adagiato un lenzuolo naturale di deliziosa dicondra, con sopra sparpagliate una manciata di orchidee e rose sempre fresche.
Non saltano un giorno (se non va uno, va l’altro), non sono mai di fretta, si ha come la sensazione che stiano lì, al camposanto, quanto gli pare, se gli pare, non per adempiere un dovere, e nemmeno per assecondare una voglia, ma per soddisfare un bisogno.
Tutto il resto, dell’ordinario quotidiano, aspetta.
Nell’aldilà sarà poi un altro paio di maniche, ma di qua, su questo mondo, la loro figlia si trova lì, a un metro scarso di distanza, sottoterra, rinchiusa in una bara magari, ma lì, esattamente lì, maledettamente lì.
E l’idea che i lineamenti, plausibilmente, non siano più così angelici non li sfiora, neanche di striscio.
Perché per loro il tempo, sotto certi aspetti, si è fermato.
L’orologio inesorabile continua sì a scandire tic toc, tic toc, ma alcune loro lancette segrete, incastonate nel cuore, per quello che riguarda Monica non vanno avanti, non rispondono all’ingranaggio, sono ferme, ormai da anni.
Ed è forse per questo che, con una signorilità d’altri tempi, assaporano quelle interminabili ore al cimitero fino all’ultimo istante, accennando altresì un seppur pallido sorriso laddove, invece, ci sarebbe da non smettere di piangere.
Nella quiete più assoluta, ai piedi di un cipresso secolare, col meraviglioso cinguettio degli uccellini in perpetuo sottofondo, come per incanto una realtà amara sfuma in un’intimità surreale dal gusto dolce, dolcissimo.
Dovreste vederli, i loro gesti non sembrano coccole, lo sono davvero.
Pare una fiaba, dove tutto ruota intorno alla principessa addormentata e dove il tempo, appunto, si è fermato.
Un filo quasi invisibile collega il tutto.
Sì, quasi.
Perché osservare, da lontano, con discrezione, Renato che infila, non si sa come, le sue grandi dita in delle minuscole forbicine e pareggia, con precisione chirurgica, il livello dell’erba; o Loredana che, con altrettanta precisione, dell’erba ne strappa leggera, quasi a non far male, l’intrusa superflua è una impareggiabile Lezione (maiuscolo, certo) che ti tocca nel più profondo l’anima e, senza il benché minimo sforzo, ti porta addirittura a vederlo quel filo.
E’ il filo di congiunzione alla vita, o meglio, all’essenza della vita.
Che in questo mondo tutto è di passaggio e niente dura in eterno.
Niente, tranne una cosa.
L’amore per i figli.
Michele Melis