Quello che ho raccontato in queste figurine marinesi è un mondo maschile, fragile e forte, a volta spietato, volto di una generazione che ha fatto e subito guerre, che ha conosciuto fame, miseria e pidocchi che nemmeno immaginiamo, che ha versato sangue e ha desiderato e costruito la pace, che ha annegato nel vino le spine dell’esistenza o che semplicemente se ne è sollazzata senza pentimento. Uomini che hanno aspettato che un futuro che non era per loro passasse tra il Cotone e l’Atore o uomini per quel futuro hanno lottato e lo hanno visto arrivare con una faccia sconosciuta, che non aveva negli occhi la loro stessa speranza di giustizia.
Ma dietro questo piccolo mondo maschile strampalato c’era un altro mondo, per noi nascosto, c’erano le donne che in silenzio si erano caricate sulle spalle l’abbandono della guerra e la miseria, che viaggiavano piene di speranza e poi di delusione sui mari con le navi scure e puzzolenti dei migranti, che si sposavano in matrimoni ancora combinati o di amore scandaloso, che pregavano Dio a Santa Chiara o erano costrette a fare come Maria Maddalena.
Senza le donne marinesi, senza l’Album che ha tenuto insieme la trama del tempo e delle vite, non ci sarebbe stato lo spazio sul quale incollare le figurine. E’ sulle spalle di queste donne che La Marina ha attraversato la fiamma incandescente della Guerra, che ha costruito la pace e il benessere, è sulle gambe di queste donne che, a un certo punto, ha preso a correre il progresso, è a queste donne antiche e ormai scomparse che le giovani donne di oggi devono le loro libertà che credono eterne.
Io sono ormai abbastanza vecchio da potermi ricordare quando per le donne era sconveniente e scandaloso entrare in un bar o fumare in pubblico - cosa che facevano allegramente in privato – vestire pantaloni che rivelavano un vuoto e una piattezza allora vergognosi. Sono abbastanza vecchio da ricordarmi le anziane donne marinesi che facevano il bagno vestite all’Omo, mentre le turiste già sfoggiavano scandalosi bikini sulla spiaggia della Marina.
Per molti di quegli uomini che ho raccontato, per i quali bastava qualche litro di vino per perdere ogni vergogna, la vergogna più grande era che la moglie, stufa e disperata, li andasse a cercare per bar e bettole per riportarli alla tavola di casa e salvarli da una sbornia colossale che svuotava le tasche già magre. A risolvere in parte questo problema arrivarono i telefoni a rotella e in bachelite, attaccati come monumenti del progresso nei bar, e Aldo del bar si trasformò in centralinista che dopo una cert’ora, praticamente ad ogni squillo, informava le mogli preoccupate sul tasso alcoolico raggiunto dal marito e sulla sua fortuna a padrone e sotto. Informazioni vitali perché l’alcool e la sfortuna spesso diventavano, dietro l’uscio di casa chiuso, litigate senza misericordia che a volte finivano in botte. E allora picchiare la moglie era "normale" e una moglie non "domata" era segno di debolezza dell’uomo. E anche per i comunisti l’emancipazione femminile era qualcosa di astruso e futuribile di cui parlare di malavoglia l’8 marzo. E molte donne li ripagavano – come fece un paio di volte la mi’ mamma facendo imbestialire Veleno – votando per la Democrazia Cristiana di Piccio, dei Kennedy e Pasquale alle elezioni comunali.
Eppure molte di quelle donne erano indomite e già a loro modo emancipate. E non solo le maestre, le mogli degli uomini benestanti che erano sicuramente un passo avanti rispetto al nostro mondo sottoproletario, ma anche le contadine, le sguattere e le puttane sfrontate e dolci che affrontavano a testa alta e da pari quegli uomini a volte terribili. Quegli stessi uomini che loro avevano partorito e cresciuto, strappandosi il pane di bocca, per perpetuare il ciclo della carne e del sangue.
C’erano allora ancora donne con nomi antichi e scomparsi, segno dei tempi fugaci o di storie familiari eterne, passate da nonna a nipote. Adua, Quintilia, Tosca, Giselda, Olga, Ilva, Elide, Iride, Elettra, Ida… E c’erano donne così forti e belle che a volte davano il nome al marito o al figlio, sostituendo perfino il soprannome antico di famiglia tramandato dagli uomini.
Io di queste donne antiche ma già moderne mi ricordo bene Quintilia, che stava nella casa che fa da angolo tra via San Francesco, via Garibaldi e Via Roma, vicino alla Soda dove giocavamo interminabili partite a pallone che, inevitabilmente, finiva nell’uviale non ancora tombato e dove oltre alle fogne veniva scaricato di tutto. Fu durante una delle mie parate che spedii il pallone nel fosso e mi toccò andarlo a prendere. Mi calai dal muraglione e il pallone era proprio su un mucchio fresco di frasche appena scaricato. La lunga e affilata spina di palma mi si infilo nella carne del ginocchio, strisciando lungo l’osso e spuntando da sopra con la testa appuntita. Venni preso, con un lavoro da formiche, dai miei compagni di gioco, risollevato dal fosso e portato a braccia da Quintilia, scaricato sulle lastre della strada, di fronte alla porta di quella donna che aveva fama di guaritrice. La donna che mi conosceva bene, disse che bisognava levare subito la spina velenosa, entrò in casa e ne uscì con un paio di forbici mai viste, grosse , lunghe e affilate e, mentre i miei compagni di squadra mi tenevano più che volentieri fermo, eccitati dal sangue e dall’operazione, Quintilia mi aprì il ginocchio per tutta la lunghezza, facendo un rumore da macellaio, e, dopo aver estratto la spina, mi ricucì la ferita sul posto, ci mise su un unguento e me ne tornai a casa sulle mie gambe. Così, senza nemmeno una fasciatura. Il giorno dopo, mentre io ero a scuola, la mi’ mamma andò dal dottore/sindaco Nello "Piccio" Bonanno per chiedergli cosa doveva fare e Piccio le disse che "un’operazione" di Quintilia era una garanzia, le dette una boccetta di penicillina, quelle tonde, avana e con una strana capsula marrone, per spruzzare un po’ di quella polverina magica sulla ferita ricucita. Credo che la mi’ mamma mi ce la fece mettere per una volta, poi se lo scordò, anche perché il lavoro di sutura della maga chirurga era stato perfetto.
A guardare interessata l’operazione c’era anche Renata la Ruzzola, la sorella di Marcaccio, lavapiatti provetto che però raccontava di essere un camionista milionario. Pochi giorni dopo l’operazione Renata era piangente di fronte al fratello morto ancora giovane, portato sul letto e con intorno le quattro candele accese e con nel cassetto del canterale il certificato di morte. Andò anche la mi’ mamma Jole a portare le condoglianze a Renata disperata e inconsolabile. Il giorno dopo Jole si alzò presto per rimediare qualcosa per colazione, forse per strusciare qualche rampa di scale o pulire il pavimento di qualche ufficio, quando tornò già stanca verso le 7 di un quasi giorno di inverno, risalendo via Garibaldi, vide sulla porta di Renata e Marco qualcuno seduto sulla soglia e arrivata più vicino vide il fantasma di Marcaccio che si mangiava l’ultima metà di una pinzetta appena sfornata dal forno di Iride, che gliela aveva regalata, terrorizzata di fronte a quell’uomo risorto senza nemmeno saperlo. Poi Iride cominciò a pregare tutti i Santi del paradiso e affidarsi al Papa buono Giovanni XXIII, il cui ritratto è rimasto sul muro del forno fino alla recente chiusura, con accanto quello di Che Guevara, messo lì per sincretismo amoroso dal nipote Mario "La Creatura", l’uomo più buono che abbia mai conosciuto.
Insomma, fu la mi’ mamma, bianca in viso e col terrore nelle gambe molli, che annunciò al mondo la resurrezione di Marcaccio e noi, senza nemmeno finire il sudato caffellatte, andammo di corsa a vedere il fenomeno, che non trovammo, forse già ritornato alle sue avventure di camionista milionario, mentre Renata ci scacciava, gridando ma contenta, dalla porta di casa.
A due passi da lì, ma già in via Garibaldi ci stava Mariona, che per noi era la donna più forte del mondo. Alta e grande, una contadina saggia e con la battuta fulminante che conservò fino alla vecchiaia mentre guardava passare la vita e il tempo dalla sua alta finestra del Vicinato. Mariona si era conquistata da sempre l’emancipazione per forza e destrezza: portava sulla testa fascine più grosse di quelle che caricava sul dorso del suo somaro e rifaceva i materassi di lana, con due lunghe pertiche di legno che frullava vertiginosamente, trasformando la lana in una colonna di neve che, magicamente ricadeva, senza spargersi, dove Mariona colpiva.
E poi c’erano – e ci sono – le donne del Cotone, l’anima originaria della Marina, le custodi dei ricordi di quelle case piantate sugli scogli e il mare e difese dal vento da strade, terrazzi e piazzette che si guardano tra loro.
Erano le cotonesi, le donne di quell’affollato quartiere dove la povertà e la solidarietà brulicavano, ma dove stranamente vivevano anche famiglie importanti come il podestà e qualche "signore", che cucivano insieme un Paese pieno di tipi strani che spesso tornavano a dormire in quelle case e da quelle donne. Erano le mamme e le nonne delle donne cotonesi che ancora oggi curano quel paese nel paese, quella memoria altrove mangiata dal cemento, dal mare e dal tempo. E il Cotone, pur cambiato, gentrificato, con i terrazzi lunghi non più affollati di pianti e giochi di bimbi, è rimasto l’anima di Marciana Marina perché ha un’anima femminile, che cura e tramanda, che non si scorda quel che è stato.
Una storia minuta, una rete di vita faticosa, che vedo oggi nelle mani nodose e nei ginocchi doloranti della mi’ mamma Jole, deformati da anni di panni lavati nei fossi di San Giovanni e del Toro, in guadi e pozze oggi scomparsi o inaccessibili, ma dove, prima dell’arrivo della lavatrice in ogni casa, risuonavano le risate, i canti e i pettegolezzi delle donne. Di quella generazione ormai quasi scomparsa, che sognava il vero amore e una vita borghese leggendo i fotoromanzi di Grand Hotel, mentre metteva faticosamente insieme pranzo e cena, pane e zeri sott’aceto e frugaglie fritte.
E ora che ho finito la squadra di quest’album di figurine marinesi mi rendo conto che ho messo insieme, con molte imprecisioni ed errori, ricordi e racconti, confondendo gli uni e gli altri, la verità e la leggenda di paese. Proprio come fa la mi’ mamma che, passati i 90 anni, parla con morti che crede ancora vivi e conserva amori e rancori.
Jole che vive in uno strano labirinto di case e collegi romani di suore, che mischia, come in una impossibile incisione di Escher, la sua casa perduta del Cotone, quelle del Buco dove ha partorito i suoi primi due figli e quella di San Francesco dove ha vissuto una vita, visto morire Veleno 50 anni fa e cresciuto da sola 4 uomini, che per lei hanno ancora l’età in cui corremmo a vedere la risurrezione di Marcaccio. E, forse, è vero.
Umberto Mazzantini