Il giorno che l’ho vista me lo ricordo: era di notte. Marciana Marina era stesa con una riga di luci fioche sul mare e dietro la spuma delle onde, un pugno di case barricate e aggrappate sugli scogli bianchi di luna, c’era il Cotone.
Mi ricordo anche l’anno: era il 1962, avevo 5 anni e, anche se non lo sapevo, quello era un ritorno e la fine e l’inizio di un nuovo viaggio che sempre lì, su quel mare nero e scarruffato sotto la luna, mi avrebbe riportato. Ero andato via 2 anni prima e la mi’ mamma Jole mi aveva appena rapito del sanatorio per bimbi di Livorno, dove delle suore nere, forse per saziarmi con le parole del cibo che centellinavano, mi avevano affibbiato il poco augurale soprannome di “Marcellino Pane e Vino”, in ricordo di un lacrimoso film che avrei visto e capito solo qualche anno più tardi al cinema di Via Garibaldi.
Il guzzo si staccò dalla pancia della nave bianca della Navigazione Toscana e io, passato di mano in mano come un sacco, con gli occhi aperti di meraviglia e lo stomaco in subbuglio, approdai, forse per esigenze di mare e di vento, vicino al Molettaccio, che era ancora un moncone riconoscibile che accoltellava il mare, e su una piazza in costruzione, accanto a una palma e a una fonte, a pochi passi dal Cotone, dove la mi’ mamma era nata 32 anni prima in una casa affacciata su una spiaggia che quella piazza si sarebbe mangiata.
Assonnato e per la mano a Jole, risalimmo frettolosi, per sfuggire al vento freddo che sapeva già d’inverno, via Zara, passando davanti alla bottega di Alba, dove spesso sarei andato a comprare qualcosa da mangiare, segnando sul libretto nero dei debiti dei poveri, e dove arrivava Elvio il lattaio per riempire gamelle e bottiglie verdi di vetro.
Il vento mi mordeva le gambe nude sotto gli striminziti pantaloncini di ordinanza anche mentre risalivamo via Garibaldi, già pronta per la notte e dove, da qualche finestra usciva già la luce blu e spettrale delle prime televisioni, gracidanti telegiornali e canzoni di Nilla Pizzi. Passato l’Asilo vecchio, dove non sarei mai andato, le lastre di granito ci portarono in Via San Francesco, dove una strada di sassi non ancora piastrellata, lambiva una chiesa scura e la sua chiostra difesa da un recinto di lance arrugginite e si inoltrava – e si inoltra ancora – sotto una volta buia che forava le case, con appiccicata, all’entrata verso il monte, una fonte. E proprio lì, accanto alla fonte che sarebbe stata il nostro gelido lavandino prescolastico per molti anni, c’erano – e ci sono ancora, anche se ricoperte di piastrelle in cotto – le scale sbeccate che portano a un terrazzino di granito massiccio e a un portone orfano dei battenti e, allora, subito a una porta di legno rattoppata e piena di spifferi, e della quale si era persa la grossa chiave di ferro e che solo la notte, a volte, quando il vento batteva troppo all’uscio, veniva serrata con un grosso e cigolante chiavistello dall’interno.
Ero arrivato alla casa di due stanze e un camino dove entro 2 anni, con l’arrivo di Edoardo, saremmo vissuti ammucchiati in 6 fino al 1971, almeno quando il mi’ babbo Veleno tornava dal sanatorio grossetano nel quale lo aveva confinato la tubercolosi e ogni volta la mi mamma aveva il terrore di mettere su un altro figliolo.
Può sembrare una storia triste, ma non lo è. La mattina, quando mi svegliai e andai alla finestra sbilenca di cucina a vedere il mio nuovo mondo ritrovato, sotto la luce polverosa del sole autunnale e un vento fresco di grecale, scoprii che era verde, selvatico e allo stesso tempo addomesticato, un paradiso rispetto al carcere di comandi, schiaffi, silenzi e incomprensibili preghiere delle suore livornesi.
Davanti, dopo una pianura di vigne che risalivano le colline fino ad arrivare ai castagni, c’era, sorgente da una colossale rientranza, un monte brullo puntuto che sul davanti aveva – ed ha - due paesi quasi gemelli, Poggio e Marciana, seduti su due seni di colline e che un’altra collina divide. La valle era chiusa da entrambi i lati da un gregge di colline ancora incise dai salti delle vigne e, nella pettata che saliva dal porto e dalla torre gialla e tonda arrampicata sugli scogli, i pini del rimboschimento della Ripa erano ancora giovani.
Dall’altra unica finestra, in camera, dove all’esterno, sul muro, c’era il buco dove svuotavamo il cancaretto, dopo l’orto anarchico di Ada e Terzo, il pozzo e il pollaio, cerano le vigne di Franceschina e Carlino e le altre che arrivavano fino quasi a toccare la chiesa e il campanile e il mare.
Un Paese strappato da un piccolo popolo di sanguemisti, immigrati dai mari e dal monte, a un’antica palude di zanzare e malaria, che galleggia sull’acqua dei fossi domata e affacciato sul mare indomabile e, come avrei scoperto l’estate, allora pieno di pesci, margherite, granchi frulloni e neri, tartarughe, delfini e pericoli.
E io vivevo proprio in cima alla striscia di case del Vicinato che porta al mare e a quel grumo di case e di vite incrociate che imparai a chiamare Marciana Marina e che sarebbe cambiato sotto i nostri occhi con la velocità della vita.
Fui subito solo come tutti e cominciai a essere annusato come un cane straniero dal branco di quelli che sarebbero diventati i miei amici e compagni di scuola. Non c’erano mamme a tenerci per mano – e nessuno di noi lo avrebbe voluto - ed esploravamo il paese come fosse un labirintico continente pieno di sorprese, tesori e pericolose delizie, arrivando in posti che ci sembravano remoti, spersi tra vigne, orti, aranciaie e strade sconosciute, come Il Toro o l’Orzaio e le Coticchie, o la lontanissima Cala, o Timonaia che scoprimmo risalendo le stradine tra i muraglioni e le briglie dei fossi e i muri armati di cocci di vetro, a caccia di lucertole, catarulli e ramarri e in fuga dalle sassate e dai cani dei contadini derubati e dai serpenti che incontravamo per la via.
Scese le scale di casa, accanto al muro dove, tra i sassi e la malta che li tiene, c’era scolpito - e ancora c’è ma coperto da una bounganville sfolgorante – l’antico slogan risorgimentale “W VERDI” (Vittorio Emanuele Re d’Italia), partiva la strada di San Giovanni che tagliava vigne e orti e, dove ora ci sono l’asfalto e le case di Via Pocar, c’era la vigna di Mechina, che si affacciava su via del Ruotone con un alto muro che il mi’ babbo scavalcava come un gatto malandrino per andare a fare porri tra i filari di viti di biancone e a rubare qualche grappolo di dolce procanico nascosto tra le pampane, un dessert per la tavola dove, quando tornava dal sanatorio, solo lui poteva spezzare e distribuirci, come un patriarca, il pane nero e sacro dei poveri.
Sotto la volta che buca la fila delle case di Risecco, l’antica entrata del paese dove alla fonte i marcianesi prima e durante la guerra parcheggiavano gli asini, si lavavano i piedi, si levavano le scarpe accavallate con le stringhe tra il collo e il petto e, calzatele, entravano in paese a vendere e comprare, allora c’era una colonia estiva di rondini, porciani e verdoni e i passeri marroni e bianchi l’affollavano l’inverno.
Ora quei richiami d’amore e quei pigolii nei nidi costruiti sulle grosse travi di legno che reggono la volta e nei buchi del muro, dove si arrampicano ancora i catarulli a caccia di falene sotto il lampione, sono scomparsi, se ne sono andati mentre le vigne venivano mangiate dalle case, le strade venivano lastricate sugli antichi acciottolati e i vetri appuntiti piantati sui muri per tenerci lontani da albicocche, pesche, melagrane, uva e baccelli, diventavano inutili, smussati, levigati e inoffensivi.
Ma a volte brillano ancora sotto il sole che li trapassa, come diamanti finti, a ricordarci la nostra splendente miseria di contadini e pescatori.
Umberto Mazzantini