“Rivedo la grande notte stellata sul fiume serpeggiante per le buie distese del Kansas; riascolto, ripetuto con l'accento dei più svariati idiomi, il ritornello d'un ormai vecchio canto d'esilio, ch'io non ho amato se non da quando sentii per esso ripercuotermi dentro gli echi di tante cose vissute e di tanti ricordi risollevati a tumulto; riafferro nella reminiscenza del coro con unanime slancio cantato da quegli uomini, sì diversi e pur sì affini nei propositi, la bizzarra cadenza e la singolare espressione di pianto che vi dava un gruppo di lavoratori dal colore di bronzo antico, ultimo rudero umano della bella e libera schiatta di cavalieri delle praterie settentrionali, dispersi dalla rapace conquista degli uomini pallidi, venuti d'oltre mare. Ed anche quelle voci lamentose della razza vinta si mescolavano a quelle dei vincitori venuti d'oltre Oceano, vinti essi pure nella mischia sociale da negrieri meno forti, ma più astuti. E tutte quelle voci unite lanciavano nei silenzi della notte stellata il ritornello del lavoro, sfruttato ingordamente da un capo all'altro del mondo, il ritornello di un'allegra vendetta di esilio: Nostra patria è il mondo intero”.
Con queste belle parole il poeta Pietro Gori riporta la memoria a quella parte di Usa che sembra averlo colpito di più: le suggestive Grandi Pianure, le terre dei popoli nativi più combattivi, che noi italiani abbiamo amato sulle pagine di Tex; le terre dei pascoli del bisonte. Ma anche le terre di quelli che “workin' in the field till you get your back burned”, delle vite consumate nelle fabbriche (“Through the mansions of fear, through the mansions of pain, I see my daddy walking through them factory gates in the rain. Factory takes his hearing, factory gives him life. The working, the working, just the working life”), tutte le persone cantate da Bruce Springsteen nello splendido album “Darkness on the edge of town”.
Il 1° maggio 1896 ritroviamo Pietro a Saint Louis, dove constaterà con piacere che la condizione morale degli immigrati si era nettamente innalzata dalla sua prima visita, grazie anche all'opera moralizzatrice e di diffusione della cultura che aveva impresso nel dicembre precedente. Vi terrà altri due incontri, alla Stavlin Hall, e vi ritornerà undici giorni dopo per incontrare lavoratori anche di altre nazionalità, arringando loro in inglese e francese.
A Pittsburgh (Pennsylvania), a fine mese, tenne quattro oratorie: “I diritti dei lavoratori e la questione sociale”, “Patria, famiglia e religione”, “La vera uguaglianza e la integrale libertà”, e un discorso all'Unione muratori italiani. Anche nella città industriale si costituì un circolo, che i compagni volevano dedicato a lui: ma Pietro li dissuaderà con una lettera in cui attaccherà il culto dell'idolatria.
La lettera, del 7 giugno 1896, è illuminante su un altro aspetto del suo pensiero: “Ho sempre combattuto e combatto, senza mezzi termini, ogni forma di idolatria e di culto personale. Fosse pure un genio, od un eroe, colui che lotta per un'idea di verità e di giustizia, non deve domandare od accettare alcun compenso, né materiale né morale, ai suoi atti. Guai per la libertà vera, se i suoi combattenti accetteranno ancora onori speciali che li contraddistinguano dalla moltitudine eroica, che oscuramente combatte e oscuramente muore, per questa santa voluttà dell'ideale”. Metteva dunque in guardia “dalla beatificazione d'un uomo popolare” che sdrucciola “fin alla formazione di nuove tirannidi, costituite dagli idoli nuovi: quindi ispiratevi all'Idea ma solo e sempre a quella”.
Peraltro questo sentimento avverso al culto della personalità traspare anche in un episodio elbano. Agli inizi del Novecento qualcuno pensò di erigere una statua di Napoleone a Portoferraio, in piazza Vittorio Emanuele II, l'attuale piazza della Repubblica. Tra i contrari c'era il nostro: non concepiva che si pensasse “a glorificare e adergere in Portoferraio operaia e marinara la figura fisica e storica del macellaro sublime; che ne venga gettato nel bronzo il piccolo corpo obeso affinché l'operaio che torna stanco o annerito dagli alti forni od il marinaio che approda, sbattuto dalle oscure battaglie eroiche col fortunale, debba vederlo ancor troneggiare sull'isola per la leggiadra argomentazione che vi regnò, effettivamente, per dieci mesi. […] La piazza è del popolo e troppo spesso non gli resta che quella. […] Volete proprio il guerriero? Sentite il bisogno di glorificare la forza che respinge la violenza? Ebbene: avete Garibaldi”.
Un'idea di un monumento a Garibaldi, al netto dell'ironia del figlio, non doveva suonare male alle orecchie del santilariese Francesco Gori. Egli infatti, affiliato alla Giovine Italia, partecipò alle lotte risorgimentali. Fu soldato in diverse guerre d'indipendenza e infine maggiore dell'esercito italiano, maturando l'esperienza militare da cadetto nella scuola di Firenze, a cui lo aveva destinato il padre Pietro. Ricevette due medaglie al valor militare: nella battaglia di Castelfidardo, il 18 settembre 1860, e nell'assedio di Ancona contro l'esercito del papa. Anche il fratello minore Vincenzo seguì le orme di Francesco.
Dopo l'unità il padre di Pietro fu destinato dall'esercito italiano nella cosiddetta lotta al brigantaggio, sia in combattimento che come giudice del tribunale militare. In questa veste pare che si dimostrasse piuttosto comprensivo, non infliggendo mai una pena capitale. Stava svolgendo le sue funzioni di ufficiale d'artiglieria in quel di Messina, quando nacque Pietro. Pare che il neonato avesse come padrino Giuseppe Dolfi, patriota fiorentino, grande amico di Francesco.
I primissimi anni di Pietro sono segnati dai continui spostamenti della famiglia per l'Italia, a causa della carriera del padre. Una delle città toccate è Ancona, dove, il 29 gennaio 1868, nasce la sorella Berenice, da tutti conosciuta come Bice, che sarà forse la donna fondamentale della vita di Pietro. Nel decennio successivo Francesco chiuse la carriera militare, e nel 1878 si trasferì con la famiglia a Rosignano, il paese natale della moglie, Giulia Lusoni.
Lunghi periodi i Gori li trascorreranno anche nel paese d'origine di Francesco, Sant'Ilario. Questi giorni sono ricordati con piacere da Pietro: “E che razzie per quegli orti, e che scalate su per quei ciliegi carichi, e che scorpacciate di susine acerbe nei giovedì scintillanti del giugno, quando la scuola del vecchio prete faceva vacanza, e le cicale strillavano sui pioppi e per le olivete, e i pini stormivano, col rumore del mare burrascoso in lontananza, e le raganelle gracchiavano in fondo ai botri serpeggianti fra l'erba. Oh primi soavissimi schiaffi al codice penale innanzi a tanta serena onestà della natura. E quando il proprietario, armato di una pertica ci dava dietro in nome della sua plena in re potestas, doveva essere un gusto veder me coi miei piccoli complici, sgattaiolarcene in cima al poggio, e di là su, trafelati, fuor di tiro della pertica sguaiata, poggiando il polpastrello del dito pollice sulla punta del naso, agitare le altro quattro dita, in atto di sfida, mentre la sinistra, dimenando l'altro pollice tra l'indice ed il medio, rispondeva fico alle sfuriate dell'inviolabile, benché violato istituto della proprietà nei suoi legittimi rappresentanti: pertica e proprietario”.
Sono molto belle le parole di Pietro, quando apprese la morte del padre, a 83 anni, il 28 dicembre 1906, a Pisa, dopo breve e violenta malattia: in una sofferta lettera a Foresi, il 14 gennaio, ricorderà con dolore: “là sopra un letto, dietro il piccolo muro, che tremò per sette ore al rantolo del mio bel vecchio, solenne quercia elbana, schiantata da quella atroce notte di turbine”.
Andrea Galassi