100 anni fa nasceva il Partito Comunista d’Italia, 2 anni esatti prima del giorno in cui nacque Galliano Mazzantini, quello che poi sarebbe diventato il mi’ babbo Veleno (che per tutta la vita credette di essere nato il 10 novembre) e 50 anni esatti prima che morisse, a 48 anni.
E nell’anno che morì Veleno io diventai comunista. E mi ricordo anche come, dove e perché.
Ero seduto sul panchino verde, sotto il grande pino che ora non c’è più, ai giardinetti, con il mare alle spalle, quasi a stagione finita, aspettando di andare a lavorare alla Fiaccola, dove facevo il cameriere. Leggevo sull’Unità, grande come un lenzuolo, le terribili notizie che venivano dal Cile dove, in un sanguinario 11 settembre, era stato assassinato da un golpe militare un presidente socialista, un uomo coi baffi bianchi, mite, che niente aveva a che fare con gli operai/guerrieri sovietici e cinesi dei manifesti e di Nuova Cina, la patinata rivista maoista che arrivava - chissà perché – in casa al mi’ zio Lampo, che allora non era nemmeno comunista (poi lo sarebbe diventato) ma del Partito Socialista Italiano di Unità proletaria. L’unico altro del PSIUP che conoscevo era lo spazzino Carnera.
Leggevo atterrito di quel terribile tradimento di militari felloni, leggevo di poeti con le dita mozzate, costretti a suonare la chitarra con i moncherini e poi ammazzati come cani, leggevo di uno stadio pieno di uomini e donne straziati, di un palazzo presidenziale bombardato da chi aveva giurato di difenderlo. Leggevo della paura che aveva ingoiata Santiago come una nebbia densa, appiccicosa soffocante. Leggevo di Valparaiso assediata, dove aveva vissuto la mi’ nonna Natalina, dove erano nati i suoi fratelli Cileno e Antonio, che poi sarebbero diventati comunisti anche loro.
Insomma, diventai comunista – mi iscrissi alla Federazione Giovanile Comunista Italiana - perché avevano ammazzato come un cane un presidente socialista. Solo dopo molti anni venni a sapere che a difenderlo armi in pugno c’era uno scrittore che un giorno fece irruzione nella mia vita con un libro magico e vibrante di vita e tristezza: “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”.
Ma coi comunisti ho avuto a che fare fin da quando sono nato: il mi’ babbo era comunista – con tanto di tessera pagata con faticosa soddisfazione – perché era figliolo di un anarchico, il mi’ zio Pezzettino era comunista, uno degli zii cileni della mi’ mamma finì addirittura dietro alle sbarre per aver partecipato ai moti di Piombino dopo l’attentato a Togliatti. Un fratello della mi’ nonna paterna finì in galera per aver aspettato fuori dalla porta del carcere lo squadrista fascista - graziato da Togliatii – che gli aveva ammazzato di botte il fratello e freddò il suo sorriso beffardo e la sua vita con una pallottola. E anche Jole era – o credeva di essere – comunista, per necessità e solidarietà, non certo per coscienza di classe. Perché da una parte c‘erano i comunisti e dall’atra parte gli altri.
Ed essere comunisti non era comodo perché significava essere un povero che si ribellava, un lavoratore che chiedeva il suo, uno che aveva studiato ma aveva preso la malattia di pensare troppo, uno che non si contentava. Uno che si “esponeva”.
Ecco, io mi misi dalla parte del torto perché era la mia ragione: non solo era lì che era seduta la mia gente, ma stava in piedi anche la speranza e la dignità.
Si diceva “E’ comunista…” come presa d’atto di una inutile ribellione, ma anche come la constatazione di qualcosa di irriducibilmente non corruttibile, di ostinatamente altro. E anche tra gli avversari era più il rispetto e il timore che la commiserazione per quegli ignoranti che credevano di poter volare.
Solo dopo comunista è diventata un’offesa. Ma, se ci fate caso, si dice ancora, per definire, per spiegare senza sprecare troppe parole, nel suo carattere e morale, di qualche persona come me ormai anziana, che “era comunista” (o addirittura è). E’ difficile sentir dire era democristiano o era socialista, o era missino, le altre tre scuole politiche di quell’epoca che sembra ormai preistoria indecifrabile.
E il fatto stesso che ancora oggi la destra italiana per accusare o sminuire i suoi avversari parli di comunisti o di sinistra, in assenza degli uni e dell’altra e riferendosi a un movimento neo-populista e a un partito liberaldemocratico, la dice lunga su quanto nell’immaginario politico abbia pesato – e pesi ancora come un rosso e spaventevole fantasma – quel Partito Comunista Italiano, quello strano animale, quella giraffa togliattiana e quella creatura berlingueriana fortemente radicata nel popolo, nella quale entrai 50 anni fa perché mi ero innamorato di un presidente socialista cileno e delle poesie d’amore, vita e salnitro di Pablo Neruda.
Erano quelli imprigionati e torturati nello stadio di Santiago e fatti sparire tra le onde eterne dell’Oceano Pacifico o in fosse senza nome, uomini e donne dell’altro mondo che somigliavano, che erano proprio come quelli che, inconsapevoli di loro, vivevano stretti e affratellati nello stesso destino, cantando le stesse canzoni in lingue diverse e alzando bandiere dello stesso colore. Anche in un’isola di migranti, proletari e marinai che presto si sarebbe dimenticata della sua storia di bastimenti, miniere, acciaio e vigne. E anche dei comunisti e di cosa è stato davvero esserlo e perché.
Gente strana che, senza avere quasi niente, credevano di avere il diritto di avere un lavoro sicuro, una casa calda, una vita tranquilla e figli meglio di loro, più liberi dal bisogno e da un destino scritto da altri.
C’era poco di graniticamente ideologico in tutto questo, c’era molto di umano, di popolare e politico, compresi i miti e gli eroi di cui tutti abbiamo bisogno. Compreso un uomo morto l’11 settembre, con la bocca piena della polvere del palazzo dove lo aveva mandato il suo popolo. Morto sotto le macerie della democrazia perché non si dicesse che aveva chinato la testa di fronte a chi spense un sogno e bruciò le bandiere. Le iene voraci della nostra storia.
Umberto Mazzantini