Ho imparato a nuotare, come era normale allora, a nemmeno 6 anni. E come era normale allora, per una spinta, o meglio un calcio in culo, di un bimbo più grande (probabilmente Galileo) che mi scaraventò in mare alle seconde scalette del moletto. Tra il nemmeno un metro di volo e l’acqua che mi accolse fragorosa, il terrore, la risalita senza respiro, l’aria, il respiro e il frenetico zampettare per tenersi a galla, mentre tutti si erano fermati a vedere se ce l’avrei fatta, passarono pochi secondi e, dopo aver ingoiato un litro di acqua salata avevo imparato a nuotare. Insomma, mi tenevo a galla come un cucciolo di cane, e non ero già più interessante per la marmaglia che aspettava solo che annegassi di lacrime e spavento. Avanti il prossimo.
Ma nuotare come i cristiani non è roba da cani e in pochi lo sapevamo fare, anche se tutti avremmo voluto nuotare più forte dei coccodrilli, a stile libero, come faceva Tarzan nei film. Il problema era che il nostro era uno stile un po’ troppo libero, senza stile, incasinato spumeggiante ma quasi immobile. Nuotavamo un po’ tutti come lontre maldestre, con la testa fuori dall’acqua, in uno strano balletto da tritoni inguardabili. Intanto vedevamo filare altri via come squali, tipo Mario Gastone o, poi, Riccardo Mazzei, che fendevano l’acqua con le braccia e facevano schiuma dai piedi come un motore fuoribordo.
Avrò avuto 10 o 11 anni quando mi comprai un libro sul nuoto e passai l’estate a rifare in mare i movimenti che avevo visto nelle figure, a mettere il capo nell’acqua a coordinare braccia, battito delle gambe e, cosa più difficile, Il respiro da mezza bocca, senza bere, dal pelo dell’acqua, proprio sotto l’ascella del braccio alzato, mentre l’altro braccio e i piedi ti spingevano avanti.
Erano giorni di occhi arrossati e ci volle un po’ perché riuscissi a compiere senza fermarmi, ma con un percorso fatto di correzioni e aggiustamenti della rotta da principiante, i forse 300 metri andata e ritorno dal moletto alla punta degli scogli del Cotone.
Poi mi comprai un paio di occhialini da nuoto, che erano quasi roba da professionista, e ci presi gusto: mi buttavo e nuotavo, avanti e indietro, sospeso, senza peso, né tempo, con i rumori dell’acqua e della spiaggia che si mischiavano mentre sotto di me passavano sabbia bianca e praterie di aliba scura, scogli e pesci disinteressati. Un tocco e una spinta al moletto, un tocco e una spinta agli scogli, in mezzo il mare. Fino a che non mi accorsi, dalle sporgenze, dalla lampate, dai ricci e dalle alghe che vedevo, che toccavo esattamente gli stessi punti da dove partivo e viravo: avevo davvero imparato a nuotare.
E un altro che aveva imparato a nuotare era anche Franco Galletti e cominciammo a fare anche qualche gara di nuoto lungo, come quella volta che da Mola a Porto Azzurro arrivammo tra i primi 10 nonostante avessimo completamente cannato la rotta, spersi nella nostra presunzione e addomesticati da chi era più bravo e allenato di noi.
Poi, un giorno che facevo le mie vasche marine, Franco mi fermò mettendomi un piede in testa mentre facevo la virata al moletto e lanciò la sfida: «Il 30 agosto vedemo chi ce la fa a fa’ prima 17 volte Moletto – Cotone e ritorno».
Fino ad allora, era luglio quasi finito, di “vasche” ne facevo 7 o 8. Decisi di aumentarne una al giorno. Per capire quanto ci mettevo guardavo l’orologio di Piazza di Sotto, quello grande che batteva le ore sopra al monumento ai caduti, e ogni giorno cominciavo un po’ prima per poter andare puntuale al lavoro alla Fiacccola.
Mi allenavo la mattina. Franco la sera, quando io lavoravo. Lui mi controllava spesso, io sapevo poco di come si allenava, se non che filava come un guzzo.
A Franco non piaceva perdere – anche perché contro di noi non perdeva praticamente mai in nessuno sport – e un giorno mi disse: perché non ti ritiri, non ce la farai mai. Gli risposi che mi bastava riuscirci e che comunque sarei arrivato secondo, visto che solo io e lui eravamo così scemi da rovinarci l’estate per fare 17 volte moletto Cotone e ritorno.
E continuai: braccia, gambe, respiro, mani che afferrano l’acqua, acqua che ti fa spazio, senza sentire più la fatica e finendo con i muscoli - che allora avevo – che era come se volessero uscire dalla pelle, stranamente intorpidito, salato probabilmente fino a dentro il cuore.
Ero pronto, sicuro di perdere ma pronto. Ma Franco, che perdere non voleva, si presentò una settimana prima del duello marino e mi disse che la cosa lo aveva stancato, che era una stupidaggine e che non ne valeva la pena.
Solo qualche anno dopo mi confessò che lui in allenamento non aveva mai superato le 10 volte andata e ritorno e che il giorno che dette forfait era venuto a prendermi il tempo mentre io arrivavo a 17 volte, accorgendosi che gli avrei dato un paio di minuti anche sulle 10 che faceva lui. Se avessimo nuotato avrei stravinto io.
Franco smise, io continuai anche l’anno dopo, spingendomi verso le Sprizze e la Cala nel mare nero trapassato dai raggi del sole, dove il fondo è insondabile e dove a volte, passato l’incantamento, ti prende la paura che sia nascosta la tacca di fondo, lo squalo bianco dei pescatori, o qualche sconosciuto serpente marino che dorme sul fondo dalla notte dei tempi.
Continuai perché volevo assolutamente fare una cosa: nuotare da Sant’Andrea a Marciana Marina. Solo io e il mare.
Convinsi il mi’ cugino Piero il Fiocinaro a farmi da assistente: mi portò a Sant’Andrea con il suo guzzo e prese il tempo quando mi buttai dalla banchina appiccicata tra la spiaggia e gli scogli, con un solo commento: «Ma chi te lo fa fa’?».
Il mare era piatto, quasi bianco, striato da strade d’acqua più scure, ed io ero lì, con le mie braccia, le palme delle mie mani e i miei piedi che spingevano ritmici, pazienti. E i miei occhi che ad ogni respiro vedevano passare un pezzo di costa, scogli, macchia verde che conoscevo, lenta lentissima, ma in movimento. E sotto il mare nero che a volte cambiava temperatura, come se entrassi in una nuova regione o superassi il confine di un ignoto regno marino. Avanti, una bracciata dopo l’altra, senza fatica, quasi anestetizzato dalla bellezza, facendo una cosa che non sapevo se e come sarei riuscito a fare e a finire. Avanti riconoscendo il Cotoncello, La Cala. Ripa Barata, l’Acqua della Madonna, la Punta del Nasuto. Con accanto la barca di Piero, silenzioso come avrei voluto che fosse, come lui sapeva di dover essere, non un’indicazione per quel cugino scemo che nuotava senza ragione e senza una gara.
Poi. Passato il Nasuto, alzai la testa e la vidi, sugli scogli e sul mare c’era l’Atore di Marciana Marina, ero arrivato. Non avrei dovuto farlo, perché lì mi prese la stanchezza dell’appagamento e i metri che separavano la piccola baia della Finiccetta dalla Finiccia furono interminabili. Quando toccai stremato i sassi davanti a Capo Nord erano passati un’ora e 59 minuti dal mio tuffo sconsiderato a Sant’Andrea.
L’unico commento all’impresa, mentre ero naufragato ansante sulla spiaggia, arenato come un delfino, fu quello dell’unico spettatore, il Fiocinaro: «Però…».
E se ci pensate bene nuotare è un però. Soprattutto imparare a farlo.
Umberto Mazzantini