Di anni ne avevo compiuti appena 20 da qualche settimana e appresi in una mattina di agosto, dalla radio, che i carri armati dell'Unione Sovietica, allora governata proprio da un ucraino (Leonid Breznev), avevano invaso la Cecoslovacchia che Alexander Dubcek e Josif Svoboda (Nomen omen - in lingua ceka svoboda è "libertà") stavano traghettando dal comunismo moscovita - quello in cui il KGB allevava dei mascalzoni di stato come Putin - verso il cosiddetto "socialismo dal volto umano", in sintonia con le idee pluraliste di quello che pochi anni dopo sarebbe stato chiamato l'"eurocomunismo" di Santiago Carrillo, George Marchais e, soprattutto Enrico Berlinguer. Ma già allora, prima del suo definitivo "strappo" con Mosca, il PCI condannò immediatamente e con assoluta fermezza il soffocamento della democrazia sotto i cingoli russi (e ucraini) .
Dubcek, che avrebbe potuto decidere di resistere magari chiamando ad armarsi il popolo ceco-slovacco (e sarebbe stato un bagno di sangue, come in precedenza - nel 56 - accaduto in Ungheria in situazione non uguale ma assimilabile), ma non lo fece, trattò con gli invasori accettando lo smantellamento di alcuni dei capisaldi di quella che era stata definita "Primavera di Praga", finché gli fu consentito resistette al suo posto, continuando a trattare finchè poi venne esautorato e, pochi mesi dopo, espulso dalla vita politica, costretto ad accettare un lavoro in una azienda agricola nell'est del paese. La parabola di Dubcek si chiudeva con una personale sconfitta, in Cecoslovacchia si fermava il cammino verso la democrazia, ma (relativamente) pochi erano stati i lutti, restava in piedi il suo paese, salva la sua economia.
La "normalizzazione" ebbe luogo dopo lunghissime proteste popolari, si contarono anche delle vittime (140 circa, il più noto Jan Palach lo studente che si sacrificò dandosi fuoco a Praga in piazza San Venceslao) ma niente a che vedere con le carneficine susseguenti ad altri attacchi a "stati sovrani" o popoli soggiogati da parte dai satrapi moscoviti, pechinesi o turchi o dai "benedettissimi occidentali" con ovvi capintesta statunitensi: (Irak, Kurdistan, Yemen, Siria, Cile, Afghanistan, Libia, Grenada, Georgia, Palestina, Cecenia, Viet Nam, Tibet, Yugoslavia tanto per citarne qualcuno) e un ladrone non muore di meno di Gesù, cantava De André, così come un profugo Afghano (respinto a calci nel culo a morire di freddo dai polacchi, ora accoglienti e generosi, sì, ma solo con chi pare a loro) non muore di meno di un ucraino sotto le bombe di Putin. Non muore di meno un bambino annegato nel Mediterraneo, assiderato in Bielorussia, massacrato nei lager libici da aguzzini pure pagati da noi "generosissimi buonissimi italiani".
E gli elbani di oggi che si mobilitano, che dimostrano tanta bontà (e meno male che lo fanno, hanno la mia gratitudine) verso il popolo ucraino, sono particolarmente "italiani", sono infatti gli stessi che poco tempo fa plaudivano al sindaco che ostacolava l'accoglienza (privata) di uno sparuto gruppetto di donne incinte... ma già quelle non erano "vere profughe" erano troppo abbronzate e in fondo erano state solo torturate e violentate sull'altra sponda del mediterraneo, solo sopravvissute alla fame e alla sete dei deserti, al mare che aveva inghiottito loro sorelle e i loro cuccioli d'uomo nero.
La pietà, la misericordia e lo sdegno sarebbe bene non esercitarli a corrente alternata, ed il pacifismo o è universale o non è.
Ma torniamo a quella che oggi si chiama Cekia, a Praga, dove giunsi qualche anno dopo (ma ancora prima che cadesse il muro di Berlino) scoprendo un paese contraddittorio, dove apparentemente comandavano ancora tutto i filo-sovietici, ma dove trovavo tanta gente (soprattutto giovani) palesemente orientata altrimenti, che lo manifestava apertamente: non c'era (ancora) una stele che ricordasse Jan Palach, ma ne trovai una, un simulacro di tomba con su scritto "Johna Lennona" con la data di nascita e di morte del musicista pacifista di "Imagine", letteralmente sommersa di fiori.
La vera democrazia a Praga sarebbe arrivata successivamente, tardi certo, ma avrebbe trovato tantissime persone in vita, una intera generazione (la stessa mia) salvata, una delle più belle città del mondo intatta, i ragazzi che riempivano i caffè o pomiciavano sul Ponte Carlo sulla Moldava (quello in foto) anche per merito di chi, venti anni prima aveva trattato con l'ìnvasore, di chi aveva avuto il coraggio di arrendersi alla prepotenza di russi (e ucraini).
Sì penso che la guerra faccia schifo sempre, e sono certo che Putin sia un guerrafondaio particolarmente esecrabile, inequivocabilmente dalla parte del torto, ma io non trovo moralmente accettabile costruire e vendere armi, strumenti di morte (come facciamo noi "bravi ragazzi" italiani che abbiamo commerciato in armi micidiali con russi, con ucraini e perfino con gli sceicchi tagliagole) figuriamoci farle arrivare in un teatro di guerra, come aiuti (aiuti ad essere più certi che ci siano più cadaveri?).
Tutto per trovarci di nuovo a scrivere "... hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato Pace"?
Sì, "felice è quel paese che non ha bisogno di eroi", e con il passare del tempo, ora che sono anziano, nella galleria degli eroi della mia vita, le fotografie degli "eroi armati" si sbiadiscono sempre di più, e si illuminano quelle di chi ha fatto guerra alla guerra ed alla violenza, nei modi più diversi: i Ghandi come i Gino e Teresa Strada, i Lennon, i Francesco, i Dalai Lama, i Martin Luther King, le Anna Politkovskaja e questo elenco che sarebbe, per fortuna, sterminato, comprende pure Alexander Dubcek, lo sconfitto di Praga.
Il fatto è che la storia non si replica mai esattamente, ma spesso tende a somigliarsi, e conoscerla non fa male, se non altro aiuta a capire che la linea di confine tra i carnefici e le vittime non è sempre cosi marcata e profonda, e che spesso, nel tempo, i ruoli dei popoli, nei giochi di dominio, si invertono.
Chiedo scusa ai pochi lettori che hanno resistito a leggere uno dei miei più lunghi "pippettoni", che però credo resti il mio unico intervento sul martirio del popolo ucraino e su quello dei ragazzini russi mandati da un dittatore spietato a farsi strumenti di morte e poi crepare lontano da casa, per la "gloria" della Grande Russia.
Accetto in anticipo qualsiasi (probabile) critica e non penso che replicherò, perché, su questa tragica vicenda, non ho altro da aggiungere.
(... ubi solitudinem faciunt, pacem appellant... - Tacito)
sergio rossi