L’altra mattina si presenta all’Enfola una piccola macchina e posteggia.
Gli occupanti scendono, sono cinque giovani, due maschi e tre femmine, ad occhio e croce cent’anni al massimo sommando le età.
Ascoltano musica a tutto volume sparata al vento da un altoparlante portatile, quasi sventolato alla stregua di un vessillo valoroso: tamarri, penso io.
Adolescenti, ci sta.
C’è da aspettarsi un pum pum pum, invece, la canzone è riconoscibile, eccome.
E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà
E dalle porte della notte il giorno si bloccherà
Un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà
E dalla bocca del cannone una canzone suonerà
Si incamminano con il loro gingillino verso la spiaggia per godersi la splendida giornata primaverile.
Decidono di adagiarsi a prendere il sole, come le lucertole, sugli scogli posizionati tra il bar ed il molo.
Stanno lì spaparanzati una mezz’oretta a farsi gli affari loro, dopodiché levano le tende.
Mentre si avvicinano alla macchina, la traccia della playlist è di nuovo distinguibile.
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
Non si guardò neppure intorno
Ma versò il vino e spezzò il pane
Per chi diceva ho sete e ho fame
Cambio idea sul loro conto in base ad un semplice - e m’importa una sega se giusto o sbagliato - ragionamento: hanno esordito con “La donna cannone” e si sono congedati con “Il pescatore”. Nel mezzo, plausibilmente, qualcosa di uguale o simile livello.
No, direi che tamarri non sono. Intenditori, semmai.
E non ho che da ringraziarli, perché quelle canzoni di straforo mi hanno fatto sussultare e ne ho canticchiato le strofe in modo inusuale, come forse mai mi era capitato prima: sorridendo.
Che io, da solo, avevo la metà dei loro anni messi insieme, eppure…
Col volume basso, viceversa, non sarebbe successo nulla.
Michele Melis