Quando i miei concittadini erano più ruspanti di oggi, e la vita spalmata su tempi più quieti, si evidenziava una peculiarità del popolo ferajese: quella di architettare scherzi, pure atroci, che in genere funzionavano da “punizione sociale” dei più antipatici e dei più rompicoglioni.
Un ometto di cui ricordiamo (ma taciamo) il nome sommava benissimo le due virtù, risultando simpatico “come la merda di gallina in mezzo ai diti dei piedi” (chi ha frequentato aree rurali scalzo potrà ben afferrare il concetto) e fastidioso “quanto un nugolo di mosche, tafani e zenzare”.
La sua specialità era recarsi al bar, dove trascorreva la parte più consistente delle giornate e serate, e pontificare ininterrottamente anche su argomenti di cui non capiva la benché minima sega. Ma il meglio di sé il tizio lo dava la sera ai tavoli da gioco; rarissimamente giocava però, piuttosto il suo ruolo era quello di “angolista” cioè si metteva ad un angolo e osservava lo svolgimento delle partite a Tressette e Briscola o a Mariaccia, ed alla fine di ogni scozzo di carte criticava la condotta di questo o quel giocatore con voce insieme nasale e gracchiante: “Hai sbagliato, dovevi vola’ quell’asso secondo!” oppure “Dovevi tenettello in mano il regio che facevi una presa in più!”
Il sollievo dei frequentatori del bar giungeva però verso le 23, quando il tizio, spossato dall’aver per tanto tempo rotto le palle al mondo, di botto si addormentava sulla sedia e lì rimaneva a russare per un’ora finché il cameriere, alla chiusura non andava a svegliarlo.
Ma una sera con la regia di un genio del male che aveva architettato il piano ed un rapido passa-parola, la vendetta si compì. Appena l’ometto chiuse gli occhi, con grande cautela furono serrate tulle le tende finestre e le imposte, e, staccato l’interruttore generale della luce, il bar cadde nel buio più completo. A quel punto un gruppo di preparati rumoristi entrò in azione: chi conversava ad alta voce, chi fingeva di giocare a carte e avvisava il compagno: “Busso e striscio!”, chi faceva tintinnare bicchieri e tazzine, chi sbatteva tra di loro le palle di avorio del biliardo. Dopo che il rumorificio fu avviato una sapiente “strenicata” svegliò il dormiente.
Qualche secondo ancora e i “suoni di bar” furono sovrastatati da un urlo belluino: “Aaaahhh! Aiuto! So diventato cieco!!!”
La cecità del soggetto durò però solo una quindicina di secondi, quanto bastava ad un “commando” a cui era stata delegata l’azione, per depositare sulla testa del “cieco” una scarica di potenti e dolorosi pattoni in braille ed allontanarsi, poi si riattaccò la corrente e si rifece luce.
A onore del “miracolato” si deve aggiungere che, forse per la scampata cecità, la prese piuttosto sportivamente e che, mangiata la foglia, cercò, senza riuscirci, perfino di temperare il suo rompicazzismo.
E va anche detto che la sera successiva poco prima delle 23 passò alla cassa per pagare quello che aveva consumato. “Ve n’andate così presto stasera? – sfotté il perfido cassiere – o come mai?’”
“Eh – rispose l’ometto – vado assennò capace che m’addormento qui, e poi capace mi viene il mal di testa!”