C’era una volta a Procchio, prima dell’ecomostro, anzi nato in funzione del suo disgraziato sorgere, quello che battezzammo come "il Lago Papera", un enorme sbancamento realizzato in piena zona alluvionale che, col suo riempirsi di una gigantesca quantità di acqua, mostrava dagli inizi la scempiaggine di un’operazione di urbanistica deteriore, che doveva poi concretizzarsi, senza però giungere a buon (o pessimo) fine, con un contorno di crimini non solo urbanistici, nella stagione degli “abusi eccellenti” che i continentali chiamarono “elbopoli”.
C’era, e - a ripristino e rinaturalizzazione disposta (e profumatamente pagata anche da soldi pubblici, “di noios”), ma non compiuta - ad ogni intensa pioggia, il Lago Papera torna a mostrarsi, a farci tornare a mente quanto a pene di segugio abbiamo impestato di cemento e bitume porzioni del nostro territorio che dovevano restare come erano, non fosse altro per la nostra sicurezza, quanto ridicoli siamo stati nel tentativo di mettere ai fossi delle mutande di calcestruzzo.
Davanti al risorto Lago Papera ricordiamo ciò che ci disse anni e anni fa, un tizio che, senza lauree in geologia, aveva passato una vita a grattare la crosta dell’isola:
“I vecchi le case le facevano sui poggi e sullo scoglio, questi le vogliono fa’ nelle buche e nel fango, ma ‘un s’è mai vista anda’ l’acqua in salita.. e da dove passava l’acqua prima o poi ci ripassa…”
Come dire che ogni mattone posato, ogni paiola di cemento sparsa per collocare umani là dove è giusto che osino solo “i granocchi”, è un azzardo demente contro la spietata “memoria” delle acque, che per quanto definite “dolci”, a rompergli le palle, presentano sempre salatissimi conti.