In questo bicentenario dell’esilio napoleonico sulla nostra Isola, la tentazione è quella di osannare l’Empereur oltre ogni misura e aggiungere alla sua corona regia anche l’aureola di santo, confondendo acriticamente storia, folklore e leggenda.
E questo non solo a livello popolare ma anche talvolta da parte di quelli che dovrebbero essere “addetti ai lavori”.
Ho avuto quest’impressione lunedì sera, 5 maggio (data impegnativa, come è noto), uscendo dall’incontro “L’aquila e l’acqua santa” organizzato nella Sala “Nello Santi” della De Laugier, dal Centro studi napoleonici. E questo non certo a causa delle ottime relazioni degli storici e docenti universitari Angelo Varni e Luigi Mascilli Migliorini, che hanno esemplarmente contestualizzato l’ambito spazio temporale nel quale si consuma la mesta parabola napoleonica di sant’Elena, quanto per l’intervento dell’ospite, il padre domenicano Giorgio Maria Carbone, docente di teologia.
Che Napoleone si fosse progressivamente avvicinato alla fede cattolica nel corso della sua eccezionale esistenza è plausibile; che l’abbia abbracciata su quell’isola sperduta nell’Atlantico, non facciamo nessuna fatica ad ammetterlo: quando gli orizzonti visivi sono soltanto cielo e mare (e non paesaggi antropizzati o pianure a perdita d’occhio che possono diventare virtuali campi di battaglia allo sguardo di chi è assetato di potere) anche gli “esercizi spirituali” sono più facili e il desiderio d’Assoluto forse irresistibile.
Quello che ci racconta la “Memoria di Sant’Elena”, di un uomo turbato, sensibile e disponibile al richiamo celeste, lo accettiamo dunque pienamente ed anzi ci rallegriamo di tale cammino.
Come non immedesimarci, del resto, nei famosi versi del Cinque maggio in cui Manzoni immagina un Napoleone sopraffatto dai ricordi, al punto di non essere capace personalmente di trasferirli dalla mente alla pagina scritta, su cui “cade la stanca man”?
E come non accogliere la supposizione manzoniana che sulla “deserta coltrice” del moribondo fosse presente la “Bella Immortal benefica/fede ai trionfi avvezza” che si rallegra perché al “disonor del Golgota” non si è inchinato mai nessuno grande quanto Napoleone?
Ma da qui a sottolineare, come è stato fatto, la quasi perfetta ortodossia cattolica del Nostro e attribuire la cattiva fama di cui fu vittima alla propaganda avversaria, principalmente inglese, ce ne corre!
Ma per il cattolicesimo, la salvezza non si raggiunge col concorso di fede ed opere? E non è Martin Lutero che l’ammette solo col possesso della prima svalutando le seconde?
E Napoleone quante e quali opere di bene avrà potuto presentare al cospetto dell’Altissimo?
Lo vogliamo ricordare che negli anni del suo dominio ha intriso di sangue e seminato di cadaveri i campi di battaglia di tutta Europa? Che ha sterminato, asservendola ai suoi velleitari sogni di gloria, la migliore gioventù del tempo?
Che il folle disegno di conquistare la Russia ha provocato un numero impressionante di morti, più di mezzo milione, e inflitto infinite sofferenze ai disgraziati di tutte le nazioni sottomesse, compresa la nostra, costretti alla ritirata nella morsa del gelo?
Le “gesta” sono queste, oltre al tradimento degli ideali rivoluzionari della Francia, che aveva abbattuto la monarchia di Luigi XVI, per ritrovarsi paradossalmente, nel 1804, ad accettare un imperatore.
E ancora, se dalla sfera pubblica passiamo a quella privata, può, quella di Napoleone, che divorzia dall’amata Josephine, per sposare, in ossequio alla ragion di stato, Maria Luisa d’Austria, essere additata come un exemplum di morale cattolica? Per non parlare delle tante amanti e di qualche figlio “extra”.
Dunque, chapeau a tutte le iniziative culturali e alle analisi della multiforme e fascinosa personalità dell’Empereur, ma evitiamo, per favore, di mettergli in capo l’aureola di santo.
MGC