La Casa Editrice elbana Persephone Edizioni inaugura con il libro ‘Diario di bordo di un bassista rock’, di Hermes Locatelli; in commerco da qualche giorno nelle librerie elbane e del ‘continente’ (principalmente tra il Nord e il Centro Italia), la nuova Collana ‘Complessità’, dedicata a opere di narrativa e saggistica che abbraccino temi o ricerche nell’ambito della complessità antropo-sociale.
Il libro, una narrazione autobiografica è la storia di Linux, un bassista rock:
Mi chiamo Linux, Mi chiamano Linux. Mi piace questo nome. Mi chiamano cosi’ perché compongo, scrivo e registro musica nel mio home studio con un computer che ha come sistema operativo una distribuzione Gnu/Linux. Ho un debole per l’elettronica, ammiro quei geni informatici che riescono a fare qualunque cosa con un computer.
Già pubblicato in e-book quasi per scherzo seguendo una necessità espressiva dell’Autore che con caparbia capacità di autogestione ha riscontrato un ragguardevole successo e consenso, mi viene proposto da un’amica comune, L.C, la lettrice di lusso autrice della prefazione del libro, per realizzarlo in cartaceo.
In quanto artista conoscevo parte dei personaggi del libro o parte di alcune sequenze ‘frames’ della narrazione: avevo infatti, nel 2005 a Pavia messo in scena in un noto locale ‘Il Treno[1]’, una performance di action-painting in sincronia con la musica suonata dalla band dei BANDIDO in cui Linux era entrato da poco. E conoscevo L.C. da ancor prima, almeno due decenni: collaboravamo artisticamente di tanto in tanto.
Inontre nel libro viene ‘raccontato’ un altro storico locale elbano con un curriculum internazionale, lo Sugar Reef[2] di Capoliveri, dove la band veniva a suonare in estate. Quindi tra realtà e finzione narrativa abbiamo un documento importante della sub-cultura italiana anni ‘90 e non solo italiana, direi occidentale, Linux ci racconta anche di trasferte in Olanda, Germania e Austria. Alla fine, l’Autore, Hermes alias Linux, con cruda semplicità e con un ritmo narrativo essenziale come quello del basso, lo strumento che suona, ci presenta il ritratto di una generazione, di come si esprimeva di quali miti si nutriva, di cosa fermentava nell’aria in quel periodo. Ma racconta anche la difficoltà individuale nel tracciare un percorso di vita e di senso, quando, chi dovrebbe guidarti non c’é, quando, la cultura dominante non offre risposte soddisfacenti. E allora il viaggio dell’Eroe inizia, annaspando nel vuoto, fidandosi solo dell’istinto. Non tutti riescono nella ricerca. Chi ‘riemerge’ o chi ‘ritorna’ deve poter comunicare agli altri quello che ha acquisito...
Riporto parte della raffinata prefazione di L.C.:
Leggere il Diario di bordo di un bassista rock di Hermes Locatelli è stata un’ esperienza di ri-conoscimento. Ovvero una riscoperta della persona, della sua complessità, delle contraddizioni e dei conflitti che segnano la vita di un giovane chiamato a traghettare la propria vita attraverso il guado delle difficoltà che lo renderanno uomo. Da appassionata musicofila, quale sono, ho seguito i suoi pellegrinaggi artistici nei più vocati locali notturni del Nord/Centro Italia, proprio negli anni in cui si svolge il racconto. In quegli anni ho ascoltato il suo talento esprimersi, agile, pungente, acuto, autentico nel fraseggio asciutto e rapido della sua performance, salda sui binari della tecnica ma in cerca di fioriture artistiche negli a-solo. Hermes traspone fedelmente le sue qualità di musicista in questa neo-nata avventura dello scriversi, del raccontarsi, nella vita come nella fantasia, con la compostezza umile di chi è ben posizionato nel reale, con i piedi radicati nella propria storia di minutaglie di provincia, ma con lo spicco che è proprio di colui che allunga lo sguardo verso l’altrove, con il pungolo del sogno, dell’innocenza creativa. Il suo primo lavoro colpisce per lo stile semplice e asciutto, privo di quell’auto-compiacimento che farebbe deragliare il treno della narrazione nel vuoto della vanagloria. Uno stile talvolta crudo, scarno, quasi telegrafico, ma insieme gentile, in un gioco di contrappunto che cerca il bilanciamento tra l’immagine del sé ideale, quella del mito rock, quella delle avventure fuori dall’ordinario, e la sua realtà, costruita sui luoghi comuni della famiglia italiana e dei suoi valori intramontabili, con la figura materna sempre al centro del nucleo del ‘bene’, così come esso era inteso nella nostra cultura tradizionale non ancora scalfita, in quegli anni della gioventù del protagonista, dallo sfilacciamento e dalla disgregazione dei contenuti a cui assistiamo oggi. Con semplicità esordiente trascrive i moti giovanili, la loro fugacità e leggerezza. La sofferenza, che non può ancora permeare tutta l’esistenza, perché è travolta e spazzata dai venti capricciosi della spinta vitale. Tutto corre rapido. A partire dai personaggi che costellano il racconto, i quali si avvicendano con le traiettorie fulminee degli astri cadenti, solo accennati, entrano ed escono dalla scena con la circospezione di chi non vuole disturbare, di chi non disturbe
[1] ‘Il Treno’, era un vero e proprio treno decontestualizzato dalla sua funzione di mezzo trasporto su rotaie e ricontestualizzato in locale notturno, pub e ritrovo per spettacoli musicali o performances.
[2] Lo Sugar Reef fondato nel 1987 a Capoliveri, Isola d’Elba da due o tre amici viaggiatori, li avevo conosciuti nel 1984 a New York in un locale di St. Mark’s Place, 8th Street per intenderci o nelle vicinanze; ha avuto importanti frequentazioni internazionali con nomi fondamentali nella storia del jazz o del rock contemporaneo; vi ho visto e sentito suonare Steeve Lacy ad esempio… Lo Sugar è stato chiuso definitivamente da qualche anno.