Chi vive all'Elba da un certo tempo sa per esperienza personale quanto l'alcol sia presente nella cultura locale profondamente. Basta farsi un giro dei bar verso le cinque della sera ed osservare i volti degli avventori.
Ma in genere chi vive una vita 'normale' e non è implicato nei servizi sociali o sanitari non 'vede' quanto danno può procurare l'alcol.
La notizia del vicino ubriaco o del decesso improvviso per incidente stradale lo colpisce per un attimo ma poi la 'sua vita normale' lo distrae.
Succede così anche per il disagio psichico e, a volte l'operatore che si occupa per lavoro di questo disagio, può essere colto dalla percezione improvvisa che il suo lavoro serva proprio a mantenere lontano dalla maggioranza, il disturbo di chi vive fuori dalla normalità.
Altrimenti non ci si può spiegare perché un problema come quello legato all'abuso di alcol non riesca a superare una certa soglia di attenzione dell'opinione pubblica mentre solo se si parla di ‘droga’ l'allarme cresce.
Eppure, se ci si ferma a considerare un attimo i numeri, le statistiche ci dicono che non c'è proporzione tra questi due allarmi sociali: di droghe, escluso l'alcol, muoiono ogni anno in Italia circa 500-600 persone a cui si possono aggiungere i morti di Aids, mentre per l'alcol , sono almeno 20.000 (ventimila) all’anno i decessi accertati: siamo al terzo posto come causa di morte evitabile dopo il fumo (80.000) e l’obesità (50.000).
L’Elba non fa eccezione, anzi. Qualche anno fa abbiamo svolto una piccola indagine con il Ser.T locale sui ricoveri ospedalieri collegati ad un problema di alcol. Purtroppo non è mai stato pubblicato, ma possiamo assicurare che le percentuali si aggiravano tra il 20 e 25% dei ricoveri nei principali reparti dell’O.C. di Portoferraio.
Ma i freddi numeri non possono raccontare le grandissime difficoltà e sofferenze che si aprono allo sguardo di chi vuol vedere, per chi inizia un percorso accidentato con l’alcol.
Sappiamo benissimo che non è la sostanza che conta. Anche se l’esperienza di chi ci è passato e, per fortuna, ne è, non ‘uscito’ ma almeno ‘venuto a patti’, dice che anche la sostanza ha la sua importanza e che occorre conoscerla per poterla evitare.
Cosa si può fare per questo enorme problema sotterraneo? È da quando esiste la consapevolezza che si tratti di una ‘malattia’ (anche se secondo noi è piuttosto uno 'stile di vita') e non un vizio, che migliaia di studiosi ed operatori si interrogano sul ‘che fare’. Risposte certe ed univoche non ce ne sono state, purtroppo. E’ stato provato di tutto ma veramente di tutto. Dalla psicoterapia individuale ai farmaci più diversi, dall’elettrochoc alla terapia in comunità, dallo choc insulinico (creare artificialmente un coma o precoma con l’insulina), alla psicoanalisi più raffinata. Purtroppo i risultati sono sempre stati piuttosto deludenti e chiunque ci abbia provato, come operatore, lo sa bene.
Solo da una trentina d’anni ci si è posta la domanda se non occorresse cambiare registro per affrontare più compiutamente il problema.
E’ venuta dalla teoria sistemica (la stessa che è alla base della teoria dei computer) la spinta più forte al cambiamento insieme alla terapia di comunità degli anni sessanta.
Da uno psichiatra yugoslavo, Vladimir Hudolin, è stato messo a punto un approccio integrato che tenesse insieme le varie facce del problema: quella individuale relativa alla persona interessata, la famiglia sempre comunque implicata volente o nolente nel disagio, l’aspetto sociale che fa da contesto alla ‘tragedia’.
Ne è risultato un Metodo, quello dei Club degli alcolisti in trattamento (CAT) che ha dato i suoi frutti ed ancora, da vent’anni in Italia, li sta dando dopo la morte del suo ‘inventore’.
Il Club è un associazione privata costituita dalle famiglie con problema alcolcorrelato, autonoma da qualsiasi istituzione con le quali pure collabora nel pieno rispetto del proprio ruolo.
Il Club non ha regole burocratiche ma solo di buon senso e rispetto. Si riunisce una volta alla settimana per circa due ore. Se non c’è la famiglia si sceglie un familiare sostitutivo insieme al servitore-insegnante. E se il/la cosiddetto/a alcolista non vuole fare niente in un primo momento, è possibile iniziare a frequentare anche senza di lui/lei.
Le ricerche provano che con il Club, se seguito a puntino, dopo anni si mantiene la sobrietà e non solo nel bere. Già perché le due idee di fondo del Metodo sono apparentemente semplici. La prima è che nessuno sa, meglio dell’alcolista e della sua famiglia, qual’è veramente il problema. La famiglia è dunque posta al centro del sistema, è la famiglia nel suo insieme che si deve prendere cura di sé stessa ‘acchiappandosi’ per il codino, come fece il barone di Münchhausen nelle famose avventure.
La seconda è che l’alcolismo non è una malattia come le altre ma piuttosto uno ‘stile di vita’ che richiede, in quanto tale, un cambiamento globale di vita fino a raggiungere la concreta esperienza di ‘sobrietà’ che è ben oltre il non bere alcol e basta.
Questa idea è fortemente innovativa e coinvolge la comunità tutta nella quale sono immersi, direi ‘inzuppati’, i problemi alcolcorrelati.
Il cosiddetto ‘bere moderato’, volutamente difeso ad oltranza da chi non vuol coinvolgersi, non è disconnesso dal bere smodato, come è stato ampiamente dimostrato anche dall’ultimo studio comparativo Europeo che si può leggere sul sito www.arcatoscana.it
Solo arrivando a percepirsi come un ‘tutto integrato’ la Comunità si apre a nuova vita riuscendo a percepire i nessi che la collegano.
E’ questa in estrema sintesi l’idea di una ‘Spiritualità Antropologica’ che si persegue nel Club, cioè arrivare a percepire il sentimento di appartenenza ad un tutto con senso di responsabilità, senza connotazioni di una particolare religione.
Per chi voglia affrontare il problema insieme al Club all’Elba, che è aperto da circa 10 anni, anche soltanto dandoci una mano, i numeri da contattare cono:
Luciano Carzaniga cell 3391116997
Beppe Bernardi 340 8498069