I protagonisti di queste storie sono reali: Marco Sardi a venticinque anni emigrò in America per raggiungere il padre Giuseppe e il fratello Dino ed è vissuto novant’anni, fino all’anno scorso, ritornando spesso a Rio nell’Elba a trovare i parenti; Pietro/Tullio Chionsini è un nostro concittadino, Giuseppino e Lido Nardelli hanno gestito in passato a Rio Marina una rinomata macelleria; Marianna e Cesira dopo la guerra hanno vissuto ancora per tanti anni al Cavo.
Per alcune di queste vicende mi sono liberamente ispirata a “Racconti riesi”di Carlo Carletti, scrittore, fotografo e grande conoscitore della storia di Rio Marina, recentemente scomparso.
Il 22 settembre del 1943, Marco, un ragazzino di Rio Elba, che si trova a passare dalla strada di Nisporto vede inabissarsi il piroscafo Andrea Sgarallino: che sta rientrando da Piombino: non crede ai suoi occhi, se li stropiccia bene, prima di tornare a guardare, poi grida, piange, singhiozza e di corsa, più svelto di una lepre, ritorna al paese, chiamando aiuto e urlando a pezzi e bocconi quel che ha visto. Qualcuno si affaccia alla finestra, chiede chiarimenti, spera che la fantasia visionaria del bambino abbia ingigantito l’accaduto, in un battibaleno sono tutti fuori, sugli usci e in piazza. Lina si mette le mani nei capelli, grida come una pazza: sul piroscafo ci sono suo fratello Tullio e sua cognata Rosetta, le hanno lasciato Pietro, il loro bambino di due anni, che la giovane zia ha coccolato per tutto il giorno. Purtroppo qualche ora dopo arriva la conferma: il piroscafo è stato silurato da un sommergibile inglese, che ha lasciato il porto di Malta una settimana prima, per una missione nelle nostre acque.
Il dolore, la disperazione, la commozione si spargono per l’Elba: tutti hanno qualcuno da piangere, parenti, amici, conoscenti. Da quel giorno, Pietro, che non vedrà più i suoi genitori, sarà chiamato Tullio dai paesani, come il padre.
Delle trecento persone a bordo, se ne salverà una soltanto.
L’autunno e l’inverno successivi sono per l’isola uno dei più difficili di tutta la guerra, soprattutto per la l’assoluta penuria di cibo. Passato il periodo della frutta estiva, dei fichi, dell’uva, delle prugne, delle pere che calmano momentaneamente i morsi della fame; consumata la poca verdura di stagione, i pomodori, le zucchine, i peperoni degli poveri orti di guerra, l’agricoltura locale non dà quasi più nulla. La pesca, dapprima vietata, riprende e regala qualche sollievo: si mangia pesce povero, gli zerri, in particolare, portati al mercato con mezzi di fortuna, dal Cavo a Rio Marina, da Marianna e Cesira, le due popolari e chiassose pescivendole del versante orientale. Appena arrivate in paese, non fanno in tempo a scendere le scale del mercato e a posare sui banchi le cassette col pesce vivo dentro, che, come attratti da una calamita, escono dai vicoli laterali gli acquirenti. Ma c’è il razionamento: sul cartellino numerato rilasciato dall’ufficio annonario è segnata la composizione del nucleo familiare; ne tocca un tanto a testa, non si scappa. Il pesce finisce senza aver accontentato tutta la fila. Si ritorna a casa avviliti ma con la speranza di farcela l’indomani, quando la vendita ricomincerà a partire dal numero successivo a quello dell’ultimo acquirente. I rifornimenti della farina e delle altre derrate alimentari avvengono da Piombino con un piccolo bastimento a motore che garantisce la panificazione per un giorno: il naviglio deve attraversare il canale con ogni tempo.
Una volta, un tremendo scirocco che gonfia il mare sollevando altissime creste di schiuma e rende bassi e opprimenti i nuvoloni, costringe l’equipaggio, ormai in vista della costa elbana, a causa di un’avaria al motore, ad alleggerire il carico in coperta, gettando in mare diversi sacchi di farina.
Qualcuno, da terra, si accorge della manovra. È necessario recuperare il prezioso carico, prima che finisca sugli scogli. Leonello e un amico fiorentino sfollato in paese non esitano a tuffarsi in mare, afferrano il sacco e faticosamente lo trascinano a riva, poi lo issano in equilibrio su una vecchia bicicletta e percorrono così alcuni chilometri, fino al portone di casa. Sulle scale, sentendo quel tramestio, anche se è notte fonda, s’affacciano tutti: un quintale di farina! Una manna!
“Ce ne sono ancora, di questi sacchi! Andate, presto!”
Il pesante sacco è svuotato e ripulito anche della farina bagnata dall’acqua di mare. Niente deve andare perduto! In casa è festa: si tira fuori il mattarello e per tutta la notte si fanno pasta, schiacciatine, focacce. Per qualche giorno si dimentica la brodaglia di zucca.
Ci si arrangia come si può anche per il vestiario: si riciclano abiti, specialmente da uomo, la cui stoffa viene “rigirata” e utilizzata; per i cappotti si usano invece le coperte militari, che, per qualche ventura, finiscono nelle mani dei civili.
Spostarsi con i servizi pubblici in quel periodo è quasi impossibile, c’è un solo collegamento tra i paesi elbani e Portoferraio, che del resto, dopo il bombardamento di settembre e il presentimento di altri che sarebbero arrivati, si sta svuotando dei suoi abitanti, che sfollano nelle campagne e nella parte orientale, ritenuta più sicura almeno dalle incursioni aeree. Il servizio pubblico avviene con un vecchio autobus che non sempre, a seconda del carico, riesce a fare le salite più impervie.
Così si provvede in altra maniera: a Rio Marina, c’è Lido, un ragazzo di 17 anni, che con il cavallo e il barroccio del padre Giuseppino, macellaio, fa la spola da un paese all’altro, trasportando latte, vino farina, materiale edile, lupini , carbone, uva, lisciva, pellicole cinematografiche e perfino…casse da morto!
Ma una sera, con un tempo da lupi, mentre i fulmini squarciano il cielo e viene giù un’infinità d’acqua, c’è una merce speciale da trasportare: la levatrice che deve andare al Cavo, a otto chilometri di distanza, per assistere una partoriente, che presenta un parto difficile. Il barroccio consueto, adibito al trasporto di merci, è sostituito da un calesse, ma Giuseppino non permette al figlio di partire, si mette lui a cassetta ed è una vera avventura: ad ogni lampo che illumina a giorno la strada, ad ogni tuono che scuote il cielo, il povero cavallo si ferma e si imbizzarisce; ci vuole del bello e del buono per persuaderlo a riprendere il trotto. Finalmente arrivano: le acque sono rotte, il bambino non si presenta bene, la povera donna è straziata dalle doglie del parto e dalla paura, ma Desolina è brava e riesce a far nascere un bel maschietto.
La famiglia, riconoscente, felice, ringrazia, ricompensa con quel poco che si può, rifocilla e fa asciugare al camino i panni dei viaggiatori, ma occorre riprendere la strada, ancora sotto il temporale: l’ostetrica, giovane e forte, se la caverà con un solenne raffreddore, Giuseppino, meno abituato ai disagi di simili spostamenti, si metterà a letto con un febbrone e una bella bronchite.
Così, tra l’occupazione tedesca, i bombardamenti alleati, le privazioni ma anche la vita che fa il suo corso e che, oltre a far morire, fa ancora gioire, innamorare, concepire e nascere, passano i mesi, finché in una calda e luminosa mattina del 17 giugno 1944, inizia nel Golfo di Campo, l’operazione Brassard, per la liberazione dell’Elba.
Unità terrestri del primo corpo d’armata francese di stanza in Corsica, circa duecento unità navali di vario tipo e altrettanti aerei da combattimento ingaggiano la battaglia con gli occupanti tedeschi. Piccoli sbarchi in vari punti dell’isola sono già effettuati la notte precedente da marines francesi, inglesi e marocchini.
Al termine della prima giornata, le forze attaccanti liberano la metà occidentale dell’isola ma i tedeschi resistono altri tre lunghissimi giorni prima di cedere.
Quello della liberazione, per le sue modalità di svolgimento, è uno dei capitoli più dolorosi della lunga e travagliata storia isolana: la battaglia coinvolge tutti i centri abitati, Marina di Campo è tenuta a lungo sotto il fuoco delle artiglierie navali, Portoferraio viene bombardata, Capoliveri subisce un cannoneggiamento, Rio Marina e Porto Azzurro piangono la morte di una trentina di persone per incursioni aeree. Le truppe coloniali, prima di essere brutalmente fermate dagli ufficiali, si abbandonano a violenze di ogni tipo, compresi gli stupri, odioso condimento di ogni guerra.
All’Elba occorrerà perciò molto tempo per riprendersi e in questo saranno d’aiuto le carezze del suo mare, finalmente sgombro di navi militari; lo sguardo del suo cielo turchino, libero di aerei minacciosi; l’abbraccio dei colli senza più soldati appostati in mezzo alla macchia; ma, soprattutto, la voglia di pace e di operosità della sua gente che lentamente guarirà le ferite della guerra anche se le cicatrici, si sa, si attenuano ma non spariscono mai.
MGC da “Tempo di guerra, voglia di pace” in “Riviere” Aletti Editore