Non si è parlato mai tanto di riforme come in questo periodo, ma appena risuona il termine programmazione le polemiche infuriano. In Toscana uno dei pochi casi in cui alle chiacchere hanno seguito o stanno seguendo leggi importanti il governo ha preso subito carta e penna per dire che quelle norme urbanistiche violano la concorrenza a danno dei grandi operatori commerciali. Chi l’avrebbe detto! Erano e sono meglio quelle speculative alla Lupi?
Il punto è che non si tratta semplicemente di una sortita sbagliata a cui ne siamo certi il governo, come dice giustamente l’assessora Marson dovrà rimediare per evitare l’ennesima brutta figura.
Il fatto davvero grave è che nel momento in cui è fin troppo evidente che le politiche ambientali degli ultimi anni hanno confermato che urge cambiare davvero verso si susseguono invece sortite una più confusa e dannosa dell’altra. Prima la cancellazione delle comunità montane, poi delle province con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi, ci sono poi le Camere di Commercio anch’esse in discussione intanto anche le regioni che dovrebbero costituire l’architrave del nuovo Senato delle autonomie sono anch’esse in discussione. Per qualcuno potrebbero anche essere abrogate tutte per altri dimezzate. L’unica cosa certa in questo bailamme è che lo stato –siccome il banco vince- torna a riprendersi anche competenze e ruoli che il titolo V aveva tentato con scarso successo di far gestire in ‘leale collaborazione’ tra tutti i livelli istituzionali. Il prezzo più alto di questo fallimento lo ha pagato proprio l’ambiente che la politica continua a snobbare quasi non fosse sua la responsabilità di quanto è accaduto e di quel che bisogna fare ora per uscirne decorosamente. Qui serve a poco continuare con le romanzine ora con le sopraintendenze ora con i comuni che per far cassa svendono il territorio ora con le province le cui competenze non si sa ora a chi affidare e soprattutto con quali soldi.
Prendiamo due tra le questioni più drammatiche ormai da anni ossia la gestione del suolo e la tutela dell’ambiente e del paesaggio che vanno via a fette. Vicende che si è teso specialmente da parte dei vari governi tecnici e non a ridurre a mera questione di cassa. Insomma se si passa da un’alluvione ad un’altra è perché il piatto piange ma si tratta di una balla. La legge sul suolo prevedeva già molti anni fa piani di bacino per mettere mano ad una politica non più riconducibile unicamente ai geni civili. D’altronde la legge seguiva non a caso ad alcune devastanti alluvioni a cui ora si doveva far fronte con il piano del Po, il piano dell’Arno e così via a cui avrebbero dovuto provvedere le autorità di bacino. La legge infatti seguiva sia pure con ritardo alla Relazione De Marchi sulla base della quale il parlamento aveva finalmente varato l’attesa legge nazionale. Quella legge molto importante introduceva finalmente strumenti di programmazione sempre poco graditi a partire dallo stato. E infatti le resistenze furono presto chiare tanto che il parlamento varò un documento in cui si riconosceva sulla base anche della esperienza da poco avviata con la legge quadro sui parchi del 1991 di coinvolgere nelle autorità di bacino più direttamente i diversi livelli istituzionali come era avvenuto con gli enti parco. Non solo non se ne fece di nulla, ma con la gestione scandalosa e corrotta della protezione civile dei piani di bacino si persero sempre più le tracce anche nelle realtà più esposte. Dove dopo le solite scuse sulla cassa si scoprì che non si era riusciti a ben utilizzare né le risorse nazionali né quelle comunitarie. E se i piani di bacino sono finiti male la stessa cosa è accaduta con quelli dei parchi a partire proprio dai parchi nazionali. Non bastando più le scuse pretestuose ora se ne è trovata appunto una nuova; se tutto va a ramengo non è perché non si è riusciti a impegnare stato, regioni ed enti locali in politiche serie di programmazione ma perché a regioni ed enti locali si sono affidate troppe competenze che ora lo stato è bene che si riprenda. Insomma becchi e bastonati. Tanto che dobbiamo anche pagare dazio all’unione europea per i nostri ritardi e la nostra incapacità di fare quello che l’Europa ci chiede che in questo caso è anche quel che a noi serve.
Possibile che la politica continui a fare orecchie da mercante e non soltanto a Roma?
Renzo Moschini