Per quanto la figura di Napoleone mi appassioni poco o punto, è inevitabile inciamparvi quando si conduce una ricerca sull'Elba. D'altra parte è risaputo che a indagare troppo sul passato della propria bella, si debbano mettere in conto sue relazioni con persone che ci stanno antipatiche.
È solo per l'approssimarsi del bicentenario della morte del Bonaparte che mi è venuta voglia di spulciare nell'archivio che lo riguarda: una raccolta di note che normalmente relego in un angolo polveroso. Tuttavia un paio di appunti interessanti li ho ritrovati. Il primo ve lo propongo qui (il secondo, se mi resta la voglia, più avanti): il rapporto tra l'esiliato e il vino elbano.
Gli sforzi del Bonaparte di massimizzare la produzione vitivinicola elbana sono indubbi. Già nel 1802, con l'annessione dell'isola alla Francia, lo stesso imperatore aveva emanato un decreto di abolizione dei dazi doganali sull'esportazione, che all'articolo 1 recitava: “A datare dalla pubblicazione del presente decreto, i vini provenienti e che si fanno all'isola dell'Elba sono ammessi nei porti della Francia, della Liguria e degli stati romani con esenzione del diritto di dogana”. Tale facilitazione e l'impulso dato dal governo francese dell'isola portò a una produzione vinicola stimata nella ragguardevole cifra di 70/80mila barili annui. Dei due settori economici trainanti l'economia elbana del periodo, se l'estrazione del ferro viveva un momento stagnante, decisamente un'età dell'oro stava passando la vitivinicoltura.
Lo stesso Napoleone, nei suoi dieci mesi d'esilio, dette un'ulteriore spinta alla viticoltura elbana: fece anche importare barbatelle di vitigni francesi, di cui però non vide i frutti, a causa della sua precipitosa fuga. È significativo il fatto che il patrimonio viticolo isolano arrivasse a 32 milioni e mezzo di piante, picco massimo della storia elbana. Lui stesso contribuì in prima persona: nella tenuta di campagna di San Martino erano coltivate delle vigne, e i loro proventi furono un'entrata non indifferente nel bilancio della casa. Inoltre nella sua biblioteca elbana non mancavano trattati sulla coltura della vite e dei frutteti, e sui modi di fare vino e acquavite.
Ma al di là di questo interesse meramente economico per l'argomento, quale fu il rapporto personale tra Napoleone e il vino elbano? Secondo la pubblicistica fu ottimo. Peccato che ci si basi su molta aneddotica e pochi documenti storici. E l'aneddotica è spesso frutto più di una bella narrazione che di una verità storica. D'altra parte i numerosi cultori di essa, come Vincenzo Paoli e Aulo Gasparri, ricorrono spesso a briose ricostruzioni e riportano parole letterali dell'imperatore, quasi fossero stati testimoni diretti di fatti o dialoghi, ma in realtà dicerie (oggi diremmo gossip) spesso di seconda (se non terza o più) mano.
L'idea che sovente ci tramandano è quella di un Bonaparte di bocca buona, “ché anzi non disdegnava un buon bicchier di vino”, come scrive Gasparri, “quando i contadini glielo offrivano, sedendosi al loro tavolo, con la sua lucerna poggiata per terra, sotto la sedia”. L'aneddoto più famoso è quello della visita alla cantina del longonese Carlo Perez. Questi gli offrì un bicchiere del suo procanico, che Napoleone gradì. “Maestà, ne ho ancora di migliore!”, gli suggerì Perez. E non lo avesse mai fatto, perché il piccato Bonaparte lo fulminò con uno sdegnoso: “Bene! Lo conservi per una migliore occasione!”
Altro notissimo aneddoto, sempre riportato da Gasparri: “In occasione del matrimonio di un marinaio, l'imperatore espresse il desiderio di partecipare alla festa. Qualcuno gli osservò che a quella tarda ora e dopo abbondanti libagioni si sarebbe esposto al rischio di qualche spiacevole mancanza di rispetto. <Bah! Tutt'al più mi offriranno qualche bicchiere di aleatico>, rispose Napoleone”.
E chissà quanto c'è di storicamente vero in quello che disse, dopo la fuga dall'Elba e il ritorno a Parigi, quando un giorno che si trovò davanti la sua corte e ripensò ai dieci mesi elbani ebbe ad affermare che gli abitanti dell'Elba “sono forti e sani perché il vino della loro isola dona forza e salute”.
La verità storica invece appare molto diversa. Ed è ben sintetizzata da Monica Guarraccino: “L'imperatore nutrì un certo sospetto nei confronti del vino elbano”. Sappiamo infatti che dalle tavole della palazzina dei Mulini e delle sue residenze temporanee il vino elbano passò molto di rado. Napoleone lo amava pochissimo. Sembra che lo trovasse troppo aspro per i suoi gusti e la sua notoria cattiva digestione. Forse, ma è tutto da dimostrare, l'unica piccola licenza all'alcool locale se la concedeva a fine pasto con un mezzo bicchiere, non di più, di spumante elbano. O al massimo di aleatico, dove pare amasse inzuppare qualche biscotto, stando a quanto dice Emanuele Foresi.
Sappiamo pure che il poco vino che acquistava dagli indigeni doveva passare al severo vaglio del generale Bertrand, l'aiutante di campo, poiché esiste un ordine scritto di pugno dell'imperatore che intimava all'ufficiale di prendere il vino locale “solo quando esso fosse riscontrato buono”. L'episodio è confermato anche dal viaggiatore francese Valery, che nel 1837 scrisse: “Il vino ordinario, nostrano, deve essere assai mediocre se lo si giudica dalla precauzione che aveva preso il bravo e leale generale D... [probabilmente Drouot] di procurarsi, a sue spese, del vino di Bordeaux, il quale, sulla tavola dell'Imperatore, sempre attento alle spese, aveva la sua bottiglia” (“Voyages en Corse, a l'ile d'Elbe, et en Sardaigne”, Bruxelles, 1838, libro 2, pag. 331 in nota).
A conferma delle parole di Valery sulla predilezione di Napoleone per i vini francesi, Guarraccino scrive: “Pur non essendo un intenditore Bonaparte bevve sempre vino francese, e anche all'Elba la sua cantina continuò ad essere discretamente fornita: una parte di vino proveniva dalla sua riserva personale recuperata a Genova da Cipriani [il suo maitre d'hotel], mentre una parte venne importata da Marsiglia. Dai documenti che ricostruiscono i beni che Napoleone lasciò all'Elba compare un numero considerevole di bottiglie di vino 'forestiero' e liquori” (“Napoleone all'Elba La tavola, gli arredi, la corte”, Livorno, 2006, pag. 36).
Non c'è da stupirsi della diffidenza del Bonaparte verso il vino isolano. Noi elbani tendiamo infatti a dimenticare che solo da pochissimi anni diversi vini nostrani sono tra le eccellenze a livello nazionale. Ma fino a qualche decennio fa, per secoli, e quindi anche in epoca napoleonica, i vini elbani di qualità si contavano sulle dita di una mano. E i nostri predecessori, “òmeni di cava e di tera” e marinai, hanno sempre bevuto “vini gnoranti” e “cancheroni”, ossia di pessima qualità. D'altra parte, è significativa una sentenza sui nostri vini di Sante Lancerio, bottigliere di papa Paolo III, che già nella prima metà del Cinquecento poteva asserire: “tali vini sono molto più piccioli, hanno colore verdeggiante, sono grassi, matrosi [ovvero lasciano facilmente deposito] et volentieri si fanno acetosi. […] Tal sorte di vino è da famiglia e non da Signori et Prelati”.
Quindi se Napoleone non li gradiva, almeno di questo io personalmente non gliene faccio una colpa, pover'omo.
Andrea Galassi