Caro Direttore,
scrivi nel tuo A sciambere dei calzoni corti: “In passato mi sono sempre speso perché le persone andassero a votare, e continuerò a farlo, perché considero la libera partecipazione della cittadinanza alle elezioni un indice di civiltà, responsabilità e cultura di un popolo. Ma non mi posso nascondere dietro un dito: oggi, dire come sempre: "vota per chi ti pare ma vota, non delegare ad altri una scelta che è tua", e perfino "in democrazia è meglio votare il meno distante, il meno peggio, che non votare", è diventato progressivamente più faticoso, in un quadro politico che definire "non entusiasmante" è un eufemismo. <…> Non è così, perché in questo mare di merda vedo profilarsi all'orizzonte un altro "tempo della rivoluzione", il tema si sposterà <…> dalla giustizia sociale alla giustizia ambientale, e saranno <…> i giovani di tutto il mondo, a sollevarsi, a seppellire con una risata una vecchia, ridicola, incartapecorita, egoista, inquinante classe dirigente”. Condivido la tua speranza (ottimismo della volontà) ma mi rimane più difficile ricacciare indietro la visione desolante della realtà che vediamo intorno a noi (pessimismo della ragione): una realtà che è andata formandosi e trasformandosi sotto i nostri occhi senza che l’universo politico cui ci riferiamo sia stato capace di arrestarne il pericoloso evolversi, che anzi è stato auspicato e favorito da alcuni di coloro che a quell’universo appartenevano per tradizione antica e disconosciuta, indifferenti agli allarmi, ai richiami, ai dissensi, alle critiche, ai contrasti che venivano loro mossi, quando “diverso era l'apprendistato nelle forze politiche, dove non ci si improvvisava, che era una sorta di tirocinio che ti costringeva a leggere, a studiare prima di aprire bocca, perché non bastava avere un'idea”. Poi abbiamo dichiarato la morte delle ideologia -della nostra, però: perché quelle degli altri sono belle vive e vegete- e abbiamo rinunciato anche alle idee, alle nostre almeno. Non abbiamo capito che con le idee spariva un modo di concepire la politica, e di farla.
In un lucido articolo di sabato 3 settembre su “Repubblica” Chiara Valerio mette in evidenza un nodo del problema attuale: “Se il mezzo della campagna elettorale è il messaggio, allora quello della nostra è che non ci serve o addirittura non esiste più la mediazione. A voler andare più a fondo si può dire che preferiamo la mediazione di un dispositivo a quella di un essere umano. Sulla natura di questa predilezione ho qualche ipotesi: pensiamo di controllare il dispositivo in quanto incosciente o neutro come, epoca per epoca, abbiamo ritenuto -sottraendo coscienza attraverso linguaggio, sistemi giuridici et alia- di controllare animali o altri esseri umani. È anche il motivo per cui preferiamo i selfie alle foto che ci fanno gli altri, il nostro sguardo su noi stessi allo sguardo degli altri su noi stessi”. Ma “mediazione e, specificamente, mediazione operata da esseri umani, è uno dei sinonimi di politica democratica, di democrazia. I politici non vogliono essere intervistati, o forse sì, da giornali e televisioni, ma preferiscono parlare ciascuno sui propri canali social. Sui social non è prevista par condicio e non bisogna ascoltare la risposta dell'altro. Sui social, si può rispondere senza discutere. Sembra un ossimoro rispondere senza discutere ma è così e non è una faccenda metaforica, è tecnica. Tutti noi riceviamo, mandiamo e inoltriamo messaggi che contengono domande o richieste alle quali capita di rispondere molto tempo dopo. Quel tempo che passa tra domanda e risposta inibisce la costruzione di una dialettica. La rallenta tanto da disinnescarla. <…> Il mezzo di questa campagna elettorale -che è poi il messaggio- è che l'altro (e dunque l'alterità, la diversità, la differenza) non ci serve. E se ciò è, allora come è possibile scegliere chi votare? Se l'altro non serve a nessuno, come potrà chi andrà al governo badare all'altro e immaginare un mondo per gli altri a venire?”.
Ma c’è di più. Se si elimina il confronto, la dialettica, resta solo la predicazione. Ed è quello che fanno i nostri politici in campagna elettorale: predicano, promettono futuri comunque migliori, chiedono comunque un atto di fede. E l’informazione -stampa televisioni-, che dovrebbe essere il polo dialettico di confronti chiarificatori, si sono eletti amplificatori dei diversi predicatori, senza mai alcun cenno critico che non sia rivolto agli avversari, in un eterno ping pong che frastorna senza aiutare in nulla la comprensione dei fatti. Un esempio clamoroso è costituito dalla “narrazione” della guerra scellerata iniziata dalla Russia di Putin in Ucraina e delle sua conseguenze geopolitiche, economiche, sociali, politiche, svolta in modo univoco, acritico, inintelligente, ideologico, assolutamente partigiano, sostanzialmente incomprensibile. Non informazione, ancora una volta, ma predicazione. Con qualche lodevole distinzione, come la rivista “Limes” o il quotidiano “il Manifesto” -oggi un pregevole intervento chiarificatore di Alberto Negri che propone aspetti criticamente valutati della situazione-. Non c’è più comunicazione, non c’è informazione, c’è sempre meno libertà. Il metodo enunciato da Berlusconi del 1994 -‘dobbiamo rivolgerci agli elettori come a dei ragazzi di tredici anni’- si è inesorabilmente realizzato: narrazioni, selfie, “storie” fotografiche. Come dice Chiara Valerio, “non è nostalgia di tribuna politica, è rabbia”.
Luigi Totaro