Le polemiche continue, le accuse e le scuse, i marchi d’infamia affibbiati un po’ a comodo per tacitare chiunque provi a ragionare su fatti che coinvolgono lo Stato di Israele e le sue politiche mi creano un profondo disagio.
Come appartenente a un altro Stato -l’Italia, appunto- che ha scelto di aderire a una organizzazione internazionale -l’ONU- la quale ha riconosciuto e sancito l’esistenza di un nuovo Stato con una decisione che “approvò un piano di partizione della Palestina che prevedeva la costituzione di uno Stato ebraico e di uno arabo” (Wikipedia, ad vocem), dal mio punto di vista il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, proclamato il 14 maggio 1948, non è in discussione: trova in quella decisione, ed esclusivamente lì, il suo fondamento.
Non è il caso di ripercorrere la complessa storia dei rapporti fra gli Israeliani e i Palestinesi che ancora attendono la costituzione e il riconoscimento internazionale di quello Stato che pure il piano di ripartizione del 1947 aveva previsto contestuale alla formazione dello Stato di Israele. Né è il caso di rileggere la storia delle guerre che da allora si sono susseguite fra questi ultimi -appoggiati dagli altri Stati arabi del territorio-, e gli Israeliani, variamente sostenuti dai cosiddetti Paesi Occidentali, spesso animati da una parzialità che tradiva e tradisce il senso di colpa per i comportamenti tenuti davanti all’eccidio nazista con i suoi sei milioni di persone accusate di appartenere a una “razza” definita infame. Ma è certo che l’ambiguità dei consessi internazionali nell’applicazione del piano di ripartizione e il silenzio colpevole di fronte alle violazioni intervenute a modificare tale piano nel corso dei decenni -quando lo Stato di Israele, rispondendo alle rivendicazioni anche armate dei Palestinesi e degli Arabi, non solo si è difeso, ma ha anche occupato territori che non erano compresi nella parte assegnata a norma della decisione dell’ONU- hanno regalato allo Stato di Israele e ai popoli palestinesi una condizione di guerra continua e cruenta, lasciando il primo a vivere senza pace in perenne stato d’assedio, e i secondi accampati, emarginati, esclusi da qualunque dignità e da qualunque sicurezza, in perenne attesa di cominciare a esistere nella dimensione internazionale.
Ma quello che mi colpisce è l’accusa di “antisemitismo” rivolta nel tempo presente in maniera del tutto impropria: essa richiederebbe, in primo luogo, l’esistenza di un “semitismo” -che non ha luogo al di fuori dei testi di antropologia culturale-. Già la definizione nazista e fascista di razza ebraica appare -negli studi storici più avvertiti- del tutto strumentale, evocata per finalità che trovavano nel concetto -di per sé demenziale- di “purezza della razza” giustificazione per operazioni che coprivano finalità estremamente pratiche con forte valenza economica o di creazione del consenso. Esiste certamente un Popolo ebraico con la sua lunga storia e la sua “diaspora”, ed è una storia travagliata e spesso contrassegnata da eventi drammatici, da persecuzioni, da violenze; ma anche da grandi successi in tutti i campi dell’attività umana -dalle scienze all’economia-. E nel tempo presente il riferimento a quel popolo come di una “razza” mi pare confinato nei meandri oscuri di menti turbate. Per tutte valga la riflessione dello storico Umberto Gentiloni (2021): “L’approdo di Albert Einstein negli Stati Uniti si accompagna a una frase lapidaria in risposta a un questionario predisposto dall’ufficio immigrazione. A fronte dell’indagine sulla razza di appartenenza dei nuovi arrivati sembra che l’illustre scienziato (per la verità la frase rimane d’incerta attribuzione anche a distanza di decenni) abbia risposto nel 1933 «appartengo all’unica razza che conosco, quella umana». La fuga dalla minaccia del nuovo ordine hitleriano, dall’Europa avviata verso un futuro di violenze e terrore prende così il segno di una discontinuità profonda: alle logiche di una superiorità presunta e sbandierata corrisponde il riconoscimento di una civiltà fondata sul rispetto delle persone, sulla loro irriducibile alterità”.
Dunque, senza semitismo, senza riferimento a una “razza ebrea”, non può esserci antisemitismo.
Che poi l’evoluzione della cultura israeliana veda una parte non marginale di quella società impegnata in una risacralizzazione della propria storia, in un recupero di temi e valori ricondotti alla dimensione religiosa e alla tradizione della Torah -il testo di riferimento dell’ebraismo, è questione che può piacere o dispiacere, essere condivisa o ignorata: ma certo non appartiene al fondamento dello Stato di Israele, alle valutazioni di politica internazionale, al giudizio sulle azioni che quello Stato compie. E se il fondamento dello Stato di Israele è tendenzialmente indiscutibile, le politiche dei governi di quello Stato -come di tuti gli altri del consesso mondiale- sono soggette a valutazioni, a giudizi, a critiche, senza che abbia senso invocare accuse di antisemitismo. Del resto il mondo arabo è stato anche di recente percorso da una impetuosa corrente che invocava in nome dell’Islam la Sharia: ma non mi pare che a livello di opinione pubblica o di commentatori politici l’attenzione si sia rivolta tanto al fondamento sacrale invocato dai vari gruppi impegnati militarmente, quanto alle azioni -spesso terribili- da essi compiuti senza che il riferimento al Corano abbia influito poco o tanto nei giudizi espressi. E lo stesso si può dire del terrorismo, che resta tale qualunque sia la “motivazione” invocata a giustificarlo.
In una situazione così tesa, anche in Israele si è sviluppata una polarizzazione che fa il gioco delle componenti più estremiste del governo. Resta di conforto la voce di persone di grande umanità come lo scrittore David Grossman -voce non isolata, peraltro-, che cerca di aprire orizzonti di riflessione ragionevole e attenta.
Ma che nessuno impedisca di guardare con preoccupazione e con esecrazione allo sterminio del popolo di Gaza, fondandolo sul diritto di uno Stato (Israele) a difendersi: la difesa da eventi ormai verificatisi da quasi un anno è un controsenso; e la difesa preventiva è un gioco di parole. La vendetta, invece, è un comportamento inaccettabile, indegno di un individuo e a maggior ragione di uno Stato.
Luigi Totaro