Il turismo ha inciso, se non pesantemente cambiato, gli equilibri economici e imprenditoriali dell'Elba. Analizziamo alcuni aspetti, partendo da una domanda all'apparenza banale. Siamo sicuri che il turismo ci abbia arricchito economicamente? Sembra una domanda retorica. Ma non lo è.
Una delle città turistiche più famose del mondo è Venezia. Verrebbe quasi da dire che il turismo sia stato la manna per i veneziani. Ma dai dati demografici non sembra così: nel 1970 gli abitanti erano 360mila, adesso sono 250mila, con una decrescita media di ben duemila persone l'anno. Dati quasi da depressione economica. Perché allora quella che sembra un'opportunità economica si trasforma in un luogo da abbandonare?
All'Elba le cose non sono andate così, ma neanche sono andate benissimo. Ho già analizzato il trend demografico dell'isola, e non starò a ripetermi.
https://www.elbareport.it/scienza-ambiente/item/59421-c-era-una-volta-l-isoletta-verde-blu-elba-paradiso-dei-single-primo-alibi-di-una-distruzione
Come dimostrano i dati, è da circa un secolo che la popolazione elbana è inchiodata tra i 27 e i 29mila abitanti. I periodi di flessione più marcata sono stati gli anni '20, anni di ridimensionamento dell'occupazione in miniere e altiforni, e l'immediato dopoguerra, con la chiusura definitiva degli altiforni e quella temporanea delle miniere. Sono i periodi di più forte emigrazione novecentesca. Negli anni '50 il turismo inizia la sua fase di decollo. Ma se questo arresta il flusso migratorio in uscita, non ne incoraggia uno in entrata: la popolazione elbana cresce poco fino agli anni '90: negli anni '60 i turisti sono meno di un milione, gli elbani sono 27mila; negli anni '80 i turisti triplicano, gli elbani non superano i 29mila. E smontavo anche il presunto boom demografico che ci porta agli attuali 32mila abitanti.
Appare quindi evidente che il turismo ha elevato esponenzialmente il reddito procapite degli elbani, ma solo di essi (e non di tutti), senza offrire possibilità di beneficio economico a immigrati, come invece facevano in passato miniere e industria. Spieghiamoci bene.
Il turismo ha rappresentato un acceleratore di strutture ricettive, commerciali e imprenditoriali, cresciute a ritmo vertiginoso in meno di mezzo secolo. Con conseguente aumento di richiesta di lavoro così massiccia da superare l'offerta interna. In pratica, molti imprenditori devono far venire un numero consistente di lavoratori dal continente. Un'immigrazione esiste, dunque, e di grandi numeri. Ed esiste (o almeno esisteva, come vedremo fra poco) un mercato del lavoro attrattivo dal punto di vista economico. Ma solo part time, il periodo estivo.
Ora, che la creazione di posti di lavoro sia un dato positivo è fuor di dubbio. Anche se per un periodo limitato, un mercato occupazionale vivo è un buon fattore. Ma perché la stragrande maggioranza di questi lavoratori non è mai stata attratta dal contribuire a un incremento demografico della società elbana? Mi si risponderà: per la stagionalità del mercato turistico elbano. Vero e falso.
È vero che molte categorie professionali servono solo in estate. Ma è anche vero che all'Elba, salvo rare eccezioni, il boom imprenditoriale del dopoguerra non si è mai preoccupato di sviluppare un settore che puntasse su sbocchi lavorativi annuali, capace di vitalizzare le nostre società. Troppi hanno pensato al facile guadagno stagionale, disinteressandosi a un piano di lunga scadenza. È la logica del mero profitto, del “prendi i soldi e scappa”, applicata a ogni livello, dall'imprenditore al lavoratore.
Questa situazione ha creato un disagio più ampio. All'Elba non esiste alcun ascensore sociale. O meglio, quasi tutti gli elbani che vivono magnificamente di turismo non hanno avuto bisogno di alcun ascensore sociale, avendolo esso già preso i genitori negli anni '50 e '60, nel momento del decollo turistico: i figli spesso non hanno fatto molto altro che gestire la rendita acquisita. Chi invece è vissuto di turismo da lavoratore, elbano e non, lo ha fatto quasi esclusivamente da stagionale. Permettendogli di vivere, anche dignitosamente, ma solo occasionalmente di poter prendere quell'ascensore verso il piano imprenditoriale. E negli ultimi anni per i lavoratori si sono aggiunti altri ostacoli.
Infatti sull'aspetto del lavoro stagionale quale ricchezza va esaminato un fatto. Se in passato il discorso poteva filare, oggi si assiste a un fenomeno inverso. I dati degli ultimi anni ci dicono che ogni comparto turistico ha aumentato i prezzi, anche molto più di quanto lo richiedessero gli aumenti dell'inflazione e dei costi gestionali. Ma i salari dei dipendenti sono rimasti inchiodati, a parità di lavoro, spesso usurante. Questa scarsa convenienza economica ha allontanato molti potenziali lavoratori stagionali, creando non pochi problemi alle strutture ricettive nel soddisfare la domanda. Un'ottima analisi della questione si può leggere qui:
ilpost.it/2024/08/21/stipendi-lavoratori-turismo/
A questo punto la domanda: il turismo crea davvero ricchezza? Offre una lettura meno banale e più complessa. Ci troviamo infatti di fronte a un ascensore sociale rotto: i ricchi gestori di strutture sono sempre più ricchi, i lavoratori sono sempre più intrappolati in un meccanismo stritolante.
Il settore commerciale è un altro indicatore di degrado sociale. Fino agli anni '80 le strutture commerciali e ristorative erano in gran parte gestite da elbani. Nei ristoranti era ancora possibile trovare piatti della cucina locale, preparati da donne che da bimbe erano state immerse in quella tradizione culinaria. Il commercio artigianale era caratterizzato da produzioni proprie e veramente elbane. Per esempio, pullulavano negozi di minerali riforniti, anche se non sempre legalmente, di cristalli delle miniere elbane.
Oggi ci troviamo con un aumento enorme di attività: basti pensare a via Pietro Gori a Capoliveri, anonima strada 40 anni fa, oggi viale quasi esclusivamente occupato da commerci stagionali: un'area pedonale che, in quanto tale, dovrebbe favorire socialità, e invece è diventata una cash machine.
Per giunta una pesante mannaia si è abbattuta sulla qualità. È scomparso l'artigianato locale, mentre proliferano anonime produzioni standardizzate indocinesi. I ristoranti sono omologati. Ma soprattutto sono scoppiati i commerci stagionali e di nessuna funzione sociale nell'arco dell'anno. Il paradosso infatti è che se le attività commerciali isolane sono lievitate, quelle strettamente legate a beni e servizi primari, fondamentali o permanenti sono addirittura diminuite. Un riese, un capoliverese, un campese o un marcianese di mezzo secolo fa troverebbero i loro paesi ricchi di negozi in estate ma desolatamente sguarniti, anche di beni basilari, d'inverno. Un'asimmetria totale con la loro giovinezza, quando i paesi avevano un tessuto commerciale povero ma fondamentale. È evidente che un quadro così stridente non ha arricchito la società residente, l'ha immiserita.
Ovviamente non si può fare una colpa ai commercianti di chiudere per l'inverno quando hanno un'attività quasi esclusivamente estiva. Ma ci si può chiedere: 1) perché nessun comune elbano abbia uno straccio di piano del commercio chiaro e lungimirante; 2) perché molti di quei commercianti non solo chiudano la loro attività in inverno, ma tornino ai loro luoghi di residenza senza integrarsi nella società elbana e contribuire al circolo virtuoso dell'economia locale. Le risposte sono chiare: 1) tutti i comuni elbani hanno un terrore fottuto di regolamentare settori legati al turismo, per ragioni elettoralistiche, e preferiscono il quieto vivere del “laissez faire laissez passaire”; 2) perché la classe commerciante è in gran parte interessata al mero profitto foss'anche a scapito del servizio di base.
Diciamocelo senza infingimenti: il turismo, da almeno 30 anni, arricchisce i già ricchi, e lascia nella precarietà e incertezza economica i più deboli.
Andrea Galassi