Sono nato tre giorni dopo il passaggio del fronte, e mi hanno dato, insieme al nome di mio padre morto quindici giorni prima (poco più che trentenne), il secondo nome di Libero. Sono nato il giorno della fondazione delle Repubblica dell’Ossola, repubblica “resistente” durata poche settimane, ma straordinario progetto-esempio del mondo nuovo che poteva nascere e che sarebbe poi nato sette mesi dopo. Allora non lo sapevo, ma vent’anni dopo ero contento d’essere stato da sempre libero e repubblicano (“resistente”). Sono passati settanta anni da quando l’Italia è rinata, e ha cominciato la sua nuova vita facendosi largo in mezzo alle macerie (delle città, dei paesi, dei ponti e delle strade crollati). Chi dice oggi “si stava meglio quando si stava peggio” dice una bestemmia: quando si stava peggio si stava parecchio peggio.
Quando sono nato chi era sopravvissuto aveva cominciato a stare peggio già da tempo: sono rimasti in pochi a ricordare quando si pativa di brutto il freddo e la fame, e quando ci si era abituati a non aver bisogno di libertà. Eppure siamo stati capaci di risollevarci, abbiamo ricostruito case e città, abbiamo riorganizzato economia, servizi, scuole; e abbiamo recuperato il patrimonio di cultura e di scienza che i nostri predecessori avevano messo insieme per noi. Abbiamo costruito ex novo uno Stato (magari con pezzi vecchi del vecchio Stato fascista, ma quello c’era…) e siamo riusciti a crescere assicurando a tutti condizioni di vita infinitamente migliori di quelle dei genitori e dei nonni. Abbiamo perfino imparato a non accontentarci, perché più o meno consapevolmente avvertivamo la fragilità essenziale di ogni condizione, ed elevandoci potevamo dall’alto meglio renderci conto di chi era in ritardo, di chi era rimasto più in basso, di chi era stato abbandonato, e non solo vicino a noi ma anche in un orizzonte più vasto.
È davvero un peccato che il relativo benessere che ci ha accompagnato dopo tanto star male abbia attenuato la nostra memoria, ed è per questo che la rievocazione della storia anche da poco trascorsa resta necessario. Non si tratta di voler turbare un orizzonte sereno (?) con immagini di una realtà densa di tristi ricordi, né tanto meno di rivangare col passato rancori e desideri di postume rivincite. La Storia sta lì in silenzio, perché possiamo servirci dei suoi documenti al bisogno quando possono venire buoni. La Storia non è magistra vitae, maestra di vita, come voleva Cicerone. Non può essere maestra, perché cambiano i tempi e gli alunni; rimane come un vecchio parente, anche saggio, ma che deve distribuire le sue conoscenze, i suoi giudizi, i suoi pareri solo se richiesto, solo se invocato. La Storia è a disposizione.
È una ricchezza a disposizione, un “tesoretto” al quale ricorrere nei momenti di bisogno. Privarsene è comunque un atto di presunzione, oltreché l’assunzione di un rischio. Perché l’oblio, come la nostalgia, deformano sempre lo sguardo, e possono indicare percorsi infidi. Ce lo ricorda proprio la Storia.
Prendiamo a esempio quella grande nazione che sono gli Stati Uniti d’America: continuiamo a indicarla come madre e maestra della Democrazia, perché duecentoquaranta anni fa i suoi cittadini si sono ribellati alla sudditanza di un impero (britannico) sfruttatore; ma loro se ne sono dimenticati, e ben presto sono divenuti sfruttatori di altri uomini e poi a loro volta fondatori di un impero sfruttatore. Negli Stati Uniti, ci si è dimenticati anche di considerare la possibilità che oltre al cittadino individuo alla ricerca del suo benessere e del suo successo esistono altri individui o gruppi o comunità o Paesi che possono aspirare in concorrenza a realizzare benessere e successo, senza per questo compiere necessariamente “azioni contrarie al supremo interesse degli Stati Uniti d’America”, formula con la quale si sono giustificati tutti gli interventi militari non concordati. La sostanziale assenza nella cultura statunitense di categorie storiche ha così generato sequele tragiche di errori: si pensi all’insensata estinzione dei “popoli nativi”; alla durissima repressione maccartista; alla folle politica di intervento prima nelle regioni d’Oriente (Corea e Vietnam) e poi in quelle del Vicino Oriente (Iran, Iraq, Siria, Saudi Arabia, Emirati, Africa ecc.), le cui conseguenze saranno sul tappeto per decenni. Come è possibile considerare “madre e maestra” della democrazia una società che ancora cinquant’anni fa impediva ai cittadini di colore di usare gli stessi autobus dei bianchi, e che ancor oggi tende a vedere in ogni ragazzo nero una minaccia alla sicurezza dei poliziotti bianchi; che negli ultimi trent’anni ha visto una dinastia (i Bush) governare per sedici, e proporre ora un terzo componente per la presidenza? Poi, certo, ci sono tantissime straordinarie persone che “resistono”, intellettuali, attori, musicisti, registi, politici, cittadini che esprimono sensibilità diverse e conservano accesa la fiammella di una democrazia possibile anche se lungi da essere compiuta.
Anche nella nostra società accade qualcosa di simile. La mutata realtà, il cresciuto benessere, il senso di una libertà che esiste anche se sempre meno si sente la necessità di farla diventare strumento efficace di crescita comune, perché ci sembra di non aver bisogno di crescere ancora; e, ancora, una mutazione genetica connessa con le nuove tecnologie di comunicazione –la conoscenza per estensione che sostituisce la conoscenza per intensità, il surfing o lo snorkeling all’esplorazione di profondità- ci fanno affrontare i problemi come se fosse sempre la prima volta che si presentano all’umanità. Tutto si semplifica e si velocizza, e la complessità ci appare inutile impaccio. Così arrivano rottamatori e riformatori, e il lento e paziente cammino percorso per poter disporre di tutti gli strumenti (anche di comunicazione velocissima) che oggi tutti utilizziamo come se fossero frutti spontanei della natura si dissolve nell’incalzare delle meraviglie del progresso.
Dicevano i filosofi della Scolastica: “Natura non facit saltus”, la Natura non fa salti. Ma forse erano gufi. Per quel che mi riguarda, nato libero e repubblicano (dell’Ossola), non voglio essere prigioniero di preconcetti; e l’età da tempo mi ha consigliato di deporre bombole, muta ed erogatori, e di sciacquettare con la maschera e le pinne in acque non troppo profonde.
Ma la democrazia, la libertà, la capacità di conoscere e di amare sono troppo preziose e troppo costose per dimenticare quanto sono state pagate solo poco tempo fa. Guardiamo serenamente al presente e pensiamo serenamente a un futuro da costruire sia pure con grandi sforzi. Però non dimentichiamo il “tesoretto” della memoria, che potrebbe ora venirci utile.
Non dimentichiamo la storia della Resistenza, della quale il 25 aprile celebriamo il settantesimo compleanno, perché anche quella potrebbe presto venirci utile.
Luigi Totaro