‘Alle fronde dei salici’ (Salvatore Quasimodo, 1944-1945, pubblicata nel 1946)
E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Salvatore Quasimodo, componendo questa poesia, evocava il ‘Salmo 137’ che nella ‘Bibbia’ ricordava la sofferenza degli Ebrei deportati a Babilonia nel VI secolo avanti Cristo.
Gli italiani vivevano allora l’occupazione nazista, le deportazioni, gli eccidi; le distruzioni delle loro città, delle loro case, delle loro attività economiche, delle famiglie, delle scuole, degli ospedali. E poi delle strade, dei ponti, dei luoghi di culto, dei musei, delle biblioteche. Pativano fame, freddo, paura.
Sappiamo tutto. Ci commuoviamo a sentire il (bellissimo) coro del ‘Nabucco’ di Giuseppe Verdi, che ha reso immortale il dramma evocato da quel salmo; e ogni tanto qualcuno -anche partiti politici nazionali- propone di sostituirlo come inno nazionale italiano al posto dell’‘Inno di Mameli’ (probabilmente senza aver mai letto il salmo, e probabilmente neanche il testo di Mameli, che altrimenti non verrebbe cantato con tanta passione. E forse senza aver mai letto nulla, tout court).
Purtroppo, però, non consideriamo che quel che viveva il popolo ebraico al tempo di Nabucodonosor - e il popolo italiano al tempo dell’occupazione nazifascista quando Quasimodo componeva ‘Alle fronde dei salici’- lo vive oggi il disperato popolo di Palestina, come vediamo documentato tutti i giorni nei servizi televisivi da Gaza, dalla Cisgiordania…
Nessuno ha più il pudore di appendere le cetre ai salici, di smettere di dividere ragioni e torti.
Abbiamo perduto il senso della storia. Abbiamo perduto la memoria. Abbiamo perduto la pietà.
E anche un po’ la dignità.
Luigi Totaro