Un’amica romana mi ha fatto notare una apparente contraddizione tra gli ultimi due post che ho pubblicato su face book
Il primo (che va spiegato):
"Gallo negro, gallo negro, gallo negro te lo advierto/ No se rinde un gallo rojo màs que cuando està ya muerto"
(due versi facilmente intendibili anche da chi ha poca dimestichezza con l’idioma ispanico, tratti da una una canzone di Chicho Sánchez Ferlosio, famosi perché la leggenda vuole che siano stati pronunciati da Salvador Allende come risposta ai golpisti fascisti che gli intimavano di arrendersi, prima di essere assassinato nel Palazzo della Moneda).
Il Secondo: (che non occorre spiegare quanto al significato)
“Ho deciso di fornire un fattivo contributo per eliminare almeno una parte delle stronzate che leggo su FB: elimino le mie! Intanto proclamo uno sciopero unilaterale del post di mesi sei, per professione dovrò continuare a leggere pure le peggiori professioni di miseria morale e povertà di spirito, ma come i Carabinieri, resterò uso ad obbedir (alla necessità) tacendo”
Orbene, spiritosamente la mia amica annotava in privato:
“Mi pare che il “gallo rosso” abbia cambiato idea e si sia arreso, se subito dopo dice che non vuole più dare beccate, ricordati dell’antico “Chi si estranea dalla lotta è un gran fjo de ‘na mignotta!”
Ordunque specifico:
Chi stende queste righe nell’ormai lontana primavera del 2000 ideò e fece registrare una testata on line che risultò essere la prima nata in terra di Toscana: si chiamava Joinelba e avrebbe funzionato da “cantiere” per Elbareport, che sarebbe nata due anni dopo. I colleghi operanti sulla carta stampata di allora ci dicevano in pratica “ma dove andate senza ombrello?” e commentavano, tra il compassionevole e il ti-piglio-pel-culo, che forse non valeva la pena di produrre tutto un giornale “per un centinaio di lettori” . A distanza di 14 anni da quelle lungimiranti previsioni i lettori quotidiani sono diventati 50 volte tanti ed abbiamo fatto da modello ed apripista per similari iniziative.
Il noioso autobiografico paragrafo di cui sopra serviva solo a dimostrare che nelle incredibili potenzialità informative del WEB ci credevamo e ci scommettevamo già in un’epoca nella quale Grillo spaccava sul palco i PC (non certamente nuovi e funzionanti, vista la sua tirchiaggine proverbiale) predicando di diffidarne.
Il problema è che come ogni rivoluzione che si rispetti (e la rivoluzione targata WWW, la storia dei prossimi secoli, è probabile la collochi tra quelle più importanti se non la più importante dell’ultimo mezzo millennio) quella del WEB oltre a determinare un balzo avanti dell’umanità ed una sterminata serie di vantaggi per la qualità della vita della gente, produce anche diverse montagne di spazzatura culturale, etica, politica, comportamentale e comunicativa.
In particolare i cosiddetti Social Network se da una parte costituiscono una formidabile occasione per informarsi e comunicare, diffondere “cultura” (nel senso più lato del termine), possono determinare fenomeni profondamente negativi.
Saltando a piè pari le vere e proprie devianze di chi “vive” in rete, di chi matura un rapporto di vera e propria dipendenza psicologica (fenomeno che mi risulta in preoccupante espansione), la cosa che mi angoscia maggiormente è la “corsa agli armamenti dei penecefali”
Mi spiego: prima che esistessero blog, guest book e Social Network, il posto elettivo per sparare minchiate (con l’elemento facilitatorio dell’alcol a portata di banco) erano i bar, e non a caso si usa in senso dispregiativo l’allocuzione “chiacchiere da bar”. Là il fesso di turno, davanti a quattro compari e un cameriere poteva pronunciare oltre che le teorie più strampalate, le idiozie più immonde, le palle più gigantesche e soprattutto le accuse più sanguinolente, gli insulti più volgari e vergognosi all’indirizzo di chicchessia, e moriva lì.
Oggi lo stesso fessacchiotto può disporre della rete che è (anche) uno sterminato potenziale uditorio e può impunemente mentire, offendere, calunniare, screditare chiunque e trovare altri sprovveduti che di quella spazzatura si fanno (anche in buona fede) ripetitori e moltiplicatori o altri fessi che ci aggiungono del loro.
E c’è un aspetto ulteriormente insidioso il “valore di cazzata aggiunto” determinato dal mezzo: vedere apparire certe affermazioni sul magico schermo ne aumenta il tasso di credibilità; “l’ho visto in internet” replica un poco “Lo ha detto la televisione” di qualche anno fa o quanto meno ci somiglia.
C’’è poi anche “la sbornia da consenso”: costretto come è ad un’esistenza nella quale raramente un minchione riceve apprezzamenti per il suo esistere, il “miracolo” di dieci ghiozzi che fanno fiorire altrettanti “mi piace” sotto qualche epocale affermazione le esalta, lo motiva, lo spinge a più pontificare e più osare.
Infine c’è “l’effetto branco” l’avventarsi in massa su qualcuno individuato per le più diverse ragioni come nemico, responsabile dei mali del mondo, della nazione o del comune, o semplicemente “altro”, “diverso” e sbranarlo con le più violente ed infamanti parole, che, nel caso la vittima sacrificale sia una donna, sono nove volte su dieci di carattere sessuale.
La libertà di critica , pensiero e parola si sono involute sul web in licenza, nel pensare che sia lecito usare qualsiasi parola, contro qualsiasi persona, in qualsiasi circostanza, e questa “deregulation” (non ti incazzare Giovanni) linguistico-comunicativa è una barbarie che è debordata ben oltre la rete, approdando perfino in quelli che dovrebbero essere templi della democrazia.
Ma, sulla rete e fuori della rete, le offese, come le urla e le intemperanze non possono mai fornire supporto al confronto di idee, sono la negazione della comunicazione, la rinuncia ottusa ad intendersi.
Le parole (anche sul web) sono pietre, questo volevo significare