Una siepe fornisce servizi: genera ombra per far riposare il bestiame, ospita insetti impollinatori delle colture, separa i campi e identifica un rivolo d'acqua. In questo contesto, le componenti lineari del paesaggio come appunto le siepi, insieme ai boschetti di sughere e ai terrazzamenti ormai camuffati dalla macchia, sono i testimoni viventi del paesaggio rurale storico.
Quando la siepe è composta da alberi da frutto, come il mandorlo, allora l'offerta di servizi è moltiplicata e può essere alimentata una piccola filiera economica. Il mandorlo (Prunus dulcis) non è una specie spontanea della nostra flora (è stato introdotto in tempi storici), eppure in molti luoghi, è diventato un elemento caratterizzante il paesaggio rurale tradizionale, senza scompaginare gli equilibri ecologici locali (come spesso avviene con piante introdotte in tempi recenti, come le specie del genere Acacia). Studiare le origini della coltivazione del mandorlo può aiutare a capire come e quando si è diffusa l'agricoltura nel bacino del Mediterraneo. L'integrazione di discipline diverse consente di ricostruire migliaia di anni di storia, le vie commerciali, il modo di fare agricoltura, di vivere il paesaggio.
Ammesso di voler (ri)mettere a coltura alcune superfici agricole, è molto preziosa la ricerca scientifica che studia il paesaggio del passato recente. Ad esempio, esaminando fotografie aeree digitali, abbiamo analizzato il cambiamento temporale del paesaggio vegetale dell'Isola d'Elba e ricavato, per la prima volta, mappe dettagliate di uso del suolo e della vegetazione naturale per gli anni 1954, 1978 e 2000 (https://doi.org/10.1016/j.apgeog.2018.07.010). In questo studio, abbiamo calcolato una superficie coltivata del 37% nel 1954, ridotta al 20% nel 1978 e a solo il 9% nel 2000. Tra le novità interessanti dello studio è emerso che nel periodo 1978-2000, il 20% dei terreni agricoli è stato convertito in aree urbane e quindi non recuperabile; mentre nel periodo di riferimento precedente (1954-1978), la traiettoria del cambio di uso del suolo prendeva una direzione diversa: i coltivi erano rimpiazzati dalla macchia. In questi siti, dove fino a pochi decenni fa si coltivava la vite e non si è ancora instaurata una foresta di leccio, sarebbe possibile e forse auspicabile, un recupero delle pratiche agricole. In conclusione, le mappe pubblicate in questo studio consentono di identificare e selezionare i siti dove intervenire; infatti il recupero è praticabile solo nei terreni che possiedono certe caratteristiche (sono vocati), conservando le funzioni ecosistemiche, incluso la protezione delle foreste mature e dei versanti più instabili.
Le ricadute positive delle attività agricole tradizionali sulla biodiversità sono state descritte nelle precedenti "riflessioni"; nei prossimi articoli potremo parlare dei benefici in termini di contenimento del rischio da incendi boschivi o da fenomeni alluvionali. Qui, abbiamo evidenziato che disponiamo di strumenti, di mappe e forse (ancora per poco) anche della memoria umana, necessarie per identificare i siti adatti ad una ripresa delle attività agricole, preservando la tessitura del paesaggio originario. Tuttavia, ammesso di poter (ri)mettere a coltura dei terreni, la domanda cruciale è: lo sfruttamento di questo potenziale potrebbe tornare a costituire una vera e rilevante risorsa per l'economia insulare? Ringrazio dunque Franco Cambi per l'invito: sì ad un progetto sull'agricoltura dove la musealizzazione ha certamente un ruolo importante come processo educativo e formativo; eppure, sento la necessità di rilanciare l'invito proponendo uno spazio aperto, un Laboratorio che coinvolga gli attori già attivi (portatori di esperienze) immaginando possa far parte di un progetto che somigli a una proposta di governo del territorio.
Angelino Carta